La Biennale di Venezia e l’Arte con la A maiuscula

Stiamo entrando nell’ultimo weekend utile per andare a vedere la Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni. Al proposito, nelle settimane successive alla preview, vi abbiamo proposto numerose letture di intellettuali e direttori di musei, scrittori e critici. Ora pubblichiamo la lettura di Giovanni Lista, un editoriale uscito in francese sulla rivista di studio “Ligeia”.

La lotta contro l’arte del Bello ideale istituzionalizzato dalla società borghese è stata uno dei cavalli di battaglia delle avanguardie storiche. Contestando il museo come paradigma dei valori estetici, il Futurismo ha ridicolizzato l’Arte con la A maiuscola. Sin dai suoi primi manifesti, Marinetti ha negato ogni idea sacra dell’arte, affermando che l’Arte con la maiuscola era “una cosa da preti”. Ancora nel 1914, polemizzando con un giornalista italiano, Severini affermava: “Lei si chiede, a proposito delle nostre opere, dov’è dunque l’arte nel vero senso della parola? Ma cos’è l’arte, secondo lei, caro signore? Evidentemente lei dà a questa parola un significato sovrannaturale (A maiuscola?!) che, per noi futuristi, è da morir dal ridere!”. Ma, dopo la guerra, il punto di vista futurista cambia diametralmente di fronte al nuovo contesto dell’arte italiana. Quando giunge il Ritorno all’Ordine e quando le diverse espressioni di un’arte neo-accademica, che propone i modelli più triti di una pittura simil-rinascimentale o simil-XIX secolo, invadono la vita artistica italiana, il futurista Nelson Morpurgo afferma esattamente il contrario. Ritiene in effetti che sia l’avanguardia futurista, col suo sperimentalismo e le sue ricerche dominate da una tensione innovatrice, a puntare a un’arte vera e propria, un’arte degna di questo nome. Allora scrive: “Futurismo è essenzialmente Arte. E, poiché è Arte con la A maiuscola, non può che essere creazione”.
Questo ribaltamento dell’approccio, che nei fatti ben traduceva l’evoluzione storica del primo quarto del XX secolo, mi pare assai attuale oggi, di fronte a una situazione che, mutatis mutandis, è molto simile. Ci pensavo in ogni caso dopo la mia visita di una settimana sfiancante alla Biennale di Venezia e agli eventi collaterali che hanno luogo un po’ dappertutto in città. Durante la Biennale, Venezia è più che mai una festa. Offre di che ricaricarsi lo spirito, la sensibilità e la curiosità intellettuale per un lungo periodo. Fra le opere notevoli mostrate nei padiglioni nazionali, il Leone d’Oro sarebbe dovuto andare all’impressionante riflessione di Anri Sala, presentato dalla Francia nel padiglione tedesco, sull’apporto della sensibilità dell’interprete nell’esecuzione di una partizione musicale. Questa attenzione rivolta all’interprete appartiene alla modernità poiché ha una storia piuttosto recente: Toscanini è stato il primo degli interpreti al quale è stato riconosciuto lo statuto di artista a tutto tondo.

L'ingresso dell'Arsenale con il Palazzo Enciclopedico di Marino Auriti

L’ingresso dell’Arsenale con il Palazzo Enciclopedico di Marino Auriti

A Venezia è soprattutto l’idea di Massimiliano Gioni a essersi rivelata vincente: partire dal progetto folle del Palazzo Enciclopedico del mondo dell’italo-americano Marino Auriti per porsi immediatamente all’esterno del modo delle gallerie e del mercato dell’arte. Gioni ha così potuto riunire pressappoco tutto ciò che ancora esiste ai margini dell’arte ufficiale, dalle opere del voodoo haitiano alle immagini visionarie dei pittori-medium, dai modellini dei maniaci del bricolage (l’austriaco Peter Fritz) agli ex voto del santuario di Romituzzo in Toscane, un’arte veramente popolare che risale al XVI secolo. Il padiglione centrale della Biennale appare come un’autentica alternativa all’accademismo che si diffonde – anche nella sua ostentazione del politicamente corretto – sul mondo dell’arte contemporanea. Come spiega il presidente della Biennale, Paolo Baratta, Gioni ha voluto “andare a vedere da dove provengono le forze originarie che ispirano l’arte, e quali sono le immagini primarie che innescano la volontà di creare e la capacità creatrice”. Un modo di procedere che è l’antitesi stessa della pseudo-arte di consumo di massa che viene servita ovunque in maniera impudica.
In effetti, da troppi anni assistiamo a un fenomeno simile a quello a cui reagiva Nelson Morpurgo. L’arte contemporanea è sempre più neo-accademica e scoraggiante per la sua semplicità e per la sua desolante elementarità. Ci si ritrova di fronte a opere che testimoniano una tale indigenza intellettuale o una tale povertà creativa da lasciare senza parole. È chiaro che si tratta soprattutto di un’arte prostituita, non dobbiamo aver timore di dirlo. Un’arte prostituita perché interamente sottomessa alle esigenze del mercato, non solo per quanto è prevedibile e scontato come gusto, ma pure per cosa il mercato sollecita in anticipo, programmata com’è dal battage mediatico. A fianco di quest’arte prostituita c’è un’arte che si potrebbe definire come esibizionismo decomplessato di artisti semplici di spirito e lieti di esserlo. Le loro opere, voglio dire queste “cose” che sono poste davanti ai nostri occhi, non resistono più di qualche secondo alla domanda di senso, alla curiosità estetica, al desiderio di vivere un’esperienza di decodificazione che non è nient’altro se non un prendere la parola in un dialogo muto con l’artista creatore. Come siamo arrivati a questo?

Biennale di Venezia 2013 - Padiglione Francia - Anri Sala

Biennale di Venezia 2013 – Padiglione Francia – Anri Sala

Luciano Fabro diceva che, quando si ha un’idea, innanzitutto non bisogna realizzarla. Al contrario, bisogna coltivarla, sezionarla in tutte le sue conseguenze e implicazioni, renderla così il più possibile ricca e ambigua, poiché l’opera che può risultarne non vivrà che attraverso la complessità e l’ambivalenza dei suoi segni. Più l’opera sarà elaborata, ermetica e ambigua, più la sua carica estetica sarà valida. Di contro a questo principio, moltissimi artisti contemporanei si esprimono con una superficialità e un’idiozia che lasciano stupefatti. La loro facilità a fior di pelle non ha evidentemente nulla della complessità di un’arte gestuale o dell’immediatezza che dà libero corso all’inconscio. Nella maggior parte dei casi, si tratta unicamente di approfittare dell’ultima trovata o dell’ultimo concetto scovati su una rivista o in una mostra. Tentano così di agganciare la moda e di arrivare molto rapidamente sul mercato prima che la moda stessa passi, poiché gli spettatori sono versatili e impazienti, hanno costantemente bisogno di novità.
Queste mie considerazioni sono condivise dalla grande maggioranza degli osservatori del mondo dell’arte. In effetti, è quel che ci si ripete a ogni incontro, a ogni conversazione fra critici d’arte e operatori del settore, ma nessuno ha il coraggio di scriverlo o di prendere apertamente posizione in merito. Il rischio è di essere messi da parte nella rete, poiché in ambienti dove regna soltanto il potere del denaro, ciò che paga è il più piatto conformismo. Così il mondo dell’arte sta in piedi grazie a principi di falsità, se non di disonestà intellettuale, in una situazione di cui non si vede la fine.
Il tentativo operato da Jean Clair nel 1995, durante la Biennale del Centenario, organizzando una mostra su un tema tradizionale, per non dire istituzionale, come Identità e alterità: figure del corpo, incarnava già il tentativo di tornare a una concezione dell’arte con la A maiuscola, attraverso la proposizione di quadri di genere come il ritratto, e marginalizzando l’astrazione e i nuovi media come il video. Il tentativo era fallito poiché l’attacco era troppo frontale e non lasciava spazio alcuno a un’articolazione dialettica. Il tentativo condotto da Massimiliano Gioni con questa Biennale 2013 è molto più sottile. Invece di ripartire dall’alto, da un ritorno alla grande tradizione degli studi accademici alle belle arti, ha scelto di affrontare il problema rilanciando le cose dal basso, dall’arte spontanea dei marginali d’ogni sorta. Ha così esplorato l’art brut, l’arte naïf, l’arte dei folli e così via, cioè tutta una serie di opere che non nascono in funzione del mercato, che non tengono assolutamente conto degli pseudo-dibattiti di idee teoriche che si sviluppano sulle riviste d’arte, oggi ampiamente asservite al mercato, ma che corrispondono a una esigenza primaria dell’essere umano, all’istinto di creazione che cerca di frapporre una distanza fra sé e il reale, che vuole accordare spazio a una epifania del proprio mondo interiore. È l’arte nel senso più antropologico che forse incarna l’ultima possibilità di cambiare la situazione e di ripartire dalle basi di autenticità. In effetti, è innanzitutto attraverso l’autenticità – ciò che manca crudelmente al mondo dell’arte attuale – che l’arte potrebbe rivendicare la maiuscola perduta.

Giovanni Lista
traduzione dal francese di Marco Enrico Giacomelli

http://revue-ligeia.com/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Giovanni Lista

Giovanni Lista

Giovanni Lista risiede dal 1969 a Parigi. Autore di numerose pubblicazioni, in particolare sulle arti visive, il teatro e il lavoro culturale delle avanguardie storiche della prima metà del XX° secolo, ha inoltre collaborato all’organizzazione di importanti mostre internazionali a…

Scopri di più