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Il 686 di Park Avenue ospita l’Istituto Italiano di Cultura a New York. Abbiamo incontrato Fabio Troisi, recentemente nominato Attache for Cultural Affairs - Cinema, Art, Music, Dance and Theatre.

Siamo all’interno dell’Istituto Italiano di Cultura a New York: come nasce questo spazio?
Lo spazio che ospita l’Istituto nasce come edificio residenziale e risale al 1904. Lo stabile fu venduto e riacquistato da un concittadino che lo donò allo Stato Italiano; l’Istituto opera dal 1961.

Parliamo dell’essenza del lavoro dell’Istituto: la cultura italiana. La domanda impossibile è: cos’è la cultura italiana? In altre parole, pensi si possa rintracciare un fattore di italianità in un certo tipo di cultura europea?
Credo che definire un’area culturale sia un’operazione di pura astrazione che risponde al taglio imposto da un critico. Più che di “cultura italiana” parlerei di “linguaggio culturale italiano”. È questo il tipo di linguaggio che ho voluto sviluppare insieme a Gian Enzo Sperone all’interno di Assonanze/Dissonanze. La mostra ha voluto rappresentare, attraverso una selezione di quattordici opere, la natura autentica dell’arte italiana. Fornire uno spaccato completo sarebbe impensabile, seguire però la traccia dell’immagine umana può rivelarsi un buono spunto per identificare il linguaggio artistico italiano a prescindere dalle oscillazioni del gusto.

Quindi il lessico pittorico italiano è riconducibile alla figura umana?
No, non esclusivamente. Tra le possibilità offerte nel panorama visivo italiano, abbiamo scelto la figura umana come momento esemplare, l’esempio che racchiude però il massimo grado di intensità.

Qual è la percezione della cultura italiana e di quella più strettamente contemporanea a New York?
Le percezioni sono molto varie. Per il grande pubblico americano il riferimento al classico è inevitabile; non è percepibile un’arte italiana che non sia in qualche modo legata ai grandi nomi del Rinascimento. Per una fetta più ristretta è possibile discernere le varie matrici dell’arte italiana a un livello più complesso. Un esempio: l’ISCP ha ospitato fino a fine marzo Francesco Arena, vincitore del New York Prize. Arena è un buon esempio di cultura visiva italiana, riconoscibile in quanto tale seppur anticlassica, concettuale e decostruttiva.

Assonanze:Dissonanze, veduta della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York

Assonanze:Dissonanze, veduta della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York

Sono quindi ancora riconoscibili dei tratti tipicamente italiani anche in ambito contemporaneo?
Bella domanda. La riconoscibilità è un fattore attivo, sempre negli occhi dell’osservatore. Un osservatore che non conosce il lavoro di Arena ma conosce bene la storia italiana può riconoscere quell’artista come italiano grazie a un metro diverso da quello prettamente artistico; il metro storico, sociale, politico.

A dicembre ho avuto la possibilità di intervistare alcune tra le direttrici e curatrici dei più importanti musei israeliani. Il tentativo di tanta arte nuova israeliana è quello opposto di uscire dalla riconoscibilità storica e regionale per avvicinarsi a un linguaggio più internazionale, quindi occidentale.
Conosco abbastanza bene la realtà di Israele ma direi che i due casi non sono paragonabili. Insisto: la riconoscibilità è a carico dell’osservatore. Solo chi ha una percezione parziale della storia cade nello stereotipo. Vale per Israele come per l’Italia.

A questo proposito, lo stereotipo di certa cultura italiana è fatto attuale anche nella New York del 2013. Quali cliché resistono? Come limarli?
Purtroppo noi “nuovi immigrati” negli Stati Uniti paghiamo un prezzo imposto da quegli italoamericani – anche di seconda o terza generazione – che hanno custodito solo i cliché a scapito di una identità italiana autentica.

E l’attività dell’Istituto come interviene in questo processo?
L’Istituto può avere un ruolo fondamentale nel cambiare questa percezione. È questo il motivo per cui il pubblico a cui ci vogliamo non è esclusivamente italo-americano. Sarebbe d’altronde molto facile assecondare i gusti della comunità italo-americana; con pochi nomi famosi potrei riempire tutti i giorni l’Istituto. Ma non è questo l’obiettivo, anzi è il contrario.

Quali sono invece secondo te i cliché veri, quelli che non riusciamo proprio a scrollarci di dosso?
Per rispondere bisognerebbe prima capire dove sta la verità. Sono convinto sia sempre questione di interpretazione; se nell’osservatore il cliché è più forte della verità stessa, allora la verità è quella.

Assonanze:Dissonanze, veduta della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York

Assonanze:Dissonanze, veduta della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York

Affidiamoci per un momento al giudizio meno parziale dei dati. Secondo il rapporto dell’Ambassade de France en Italie, l’Italia è al 15esimo posto in Europa per tasso d’innovazione. 36esimo nel mondo secondo il Global Innovation Index (2012). Questi numeri possono essere – in prospettiva – l’indice oggettivo di una negligenza strutturale?
È vero, abbiamo fatto dei passi indietro. Credo questo sia più un dato politico che socio-culturale. È risaputo che gli italiani costituiscono anche qui negli Stati Uniti un’eccellenza nel campo della tecnologia, della ricerca, dell’arte.

E il fatto stesso che l’italiano possa essere sì eccellente, ma all’estero, non è di per sé un tratto di mancanza di visione e di progettualità che ricade nello stereotipo?
Non credo che sia questa una condizione tipicamente italiana. Le condizioni imposte dagli ultimi vent’anni di politica hanno fatto sì che l’Italia perdesse delle posizioni. Chi ha dei talenti li sviluppa all’estero perché l’Italia è un Paese bloccato, c’è poco ricambio, le celebri “caste”. Le cose cambieranno.

E dal punto burocratico, hai trovato differenze sostanziali tra il modo di operare qui e a Roma?
Sinceramente mi sarei aspettato un maggiore scarto da questo punto di vista, non è questo un Paese tanto meno burocratico dell’Italia. Ho percepito però una grossa differenza in termini di apertura è disponibilità. Vige qui una predisposizione al confronto, all’ascolto verso chiunque. In Italia ci si premura sempre di sapere da chi viene una certa idea più che di valutarne la bontà.

Parliamo di gallerie. Le frequenti? Immagini, per quanto riguarda le arti visive, una programmazione dal volto contemporaneo?
Mi muovo per gallerie soprattutto per interesse personale. L’Istituto si dedica già abbondantemente all’arte contemporanea.

Il sito riporta un programma sostanzioso di attività ed eventi dalla natura molto varia: dal cinema, alla politica, alla letteratura…
Cerchiamo per quanto possibile di coprire tutti i settori della cultura. È un periodo abbastanza intenso.

Qual è la risposta del pubblico?
Molto varia: ovviamente alcuni temi più settoriali sono rivolti a un pubblico più ristretto, a numeri più limitati di specialisti, accademici.

Assonanze:Dissonanze, veduta della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York

Assonanze:Dissonanze, veduta della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York

E in ambito pubblico, con quali istituzioni il dialogo è più fitto?
Interagiamo costantemente con gli Istituti di Cultura di altre nazioni, vedi il Festival del Cinema. Altri partner sono i musei della città e altre istituzioni italiane: regioni, enti locali presenti o da presentare a New York. La Regione Umbria con Umbria Jazz ha fatto parte del calendario di giugno, in occasione di Tribeca Film Festival siamo stati d’appoggio per la Regione Basilicata che con Michelangelo Frammartino ha presentato Alberi al PS1. Non mi dilungo sulle varie collaborazioni con NYU, Casa Italiana, Italian Academy, Columbia University…

C’è insomma una maglia fitta che collega il 686 di Park Avenue al resto della città.
Assolutamente sì.

Ultima domanda con lo sguardo rivolto all’Italia e al suo guazzabuglio politico: qualche ricetta per il rilancio della cultura?
Credo che ci siano due cose urgenti da fare: ripartire con gli investimenti e rendere le istituzioni più vicine alla realtà. Il 21 marzo abbiamo presentato qui la Biennale. Baratta faceva l’esempio delle Accademie di Belle Arti e della loro distanza dalla realtà dell’arte contemporanea. Io potrei fare l’esempio dei tanti conservatori italiani: spesso gli studenti vivono chiusi in una torre d’avorio, il riconoscimento legale dei vari titoli di studio è un altro segno di questa chiusura. Quello di cui abbiamo più bisogno è proprio di maggior confronto e contatto con la realtà.

Luca Labanca

www.iicnewyork.esteri.it/IIC_Newyork

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15

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Luca Labanca

Luca Labanca

Luca Labanca si muove nel 2006 da Varese a Bologna per iniziare il percorso di studi del DAMS, curriculum Arte. Negli anni di residenza bolognese collabora stabilmente col bimestrale d’arte e cultura ART Journal, contemporaneamente idea e sviluppa progetti ed…

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