Manabile per giovani artisti, III. Gian Maria Tosatti

Si intitola “Come ho cominciato e (soprattutto) perché continuo” l’intervento che Gian Maria Tosatti ha pubblicato sul “Manabile per giovani artisti”. Un libro che troverete anche allo stand di Artribune durante Artissima.

Una delle prime cose che ricordo… è la penombra della camera da letto dei miei nonni. Non so perché, in questa memoria, le lampade non sono mai accese. Tutta la mia infanzia la ricordo con la luce filtrata dalle tende. E così è anche la camera dei miei nonni. Da un mobile basso estraggo un libro, un’antologia visiva dell’opera di Odilon Redon. C’è quasi tutto. I lavori a olio e le raccolte di litografie che poi avrei ritrovato, anni dopo, appese ai muri nella casa di Des Esseintes. Dovevo essere molto piccolo, perché i miei nonni sono morti presto. Non avrò avuto più di cinque anni. Ma non è un ricordo singolo. È un’azione reiterata. Quasi ogni giorno. I pomeriggi della mia infanzia li ho passati davanti a quel libro. Da ragazzino, per anni ho continuato a riprodurre a memoria quelle immagini. Sul tavolo della cucina, a scuola. Le litografie più che altro. E poi, a memoria, rifacevo gli affreschi della Sistina alle elementari. E alle medie lavoravo a cavalletto, da solo, in un lato dell’aula, mentre tutti gli altri disegnavano sul banco. Ho fatto un collegio severo da ragazzino. Severo soprattutto per chi come me non aveva abbastanza soldi. Dunque, quella stravaganza doveva essere stata ben pesata dal professore di disegno che me la concesse. Poi black out. Non ho mai più toccato una matita per anni. Decenni anzi. Due. E anche quando ho cominciato a fare questo mestiere, sono passati anni prima che i miei schizzi lasciassero la forma degli appunti scritti per diventare linee, prospettive. Ad oggi è un processo ancora aperto. Ogni tanto mi riapproprio di qualche tecnica. Poche settimane fa ho fatto il mio primo carboncino. Anche se in realtà negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza di carboncini ne ho fatti a centinaia.

Mara Piras, Senza titolo #34, 2012 - biro su carta da lucido applicata su carta, 30 x 20 cm

Mara Piras, Senza titolo #34, 2012 – biro su carta da lucido applicata su carta, 30 x 20 cm

C’è una pagina, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, in cui Rilke parla di come nascono i versi. Bisogna aver visto molto. E poi aver dimenticato tutto. E ancora ricordare come da un’altra vita. Ecco. Quelle immagini di Redon, mi tornano sempre nella testa come da un’altra regione dell’esistenza: la mia infanzia, da cui ho dovuto fare le valigie bruscamente. Quando mi scorre tra le dita il bastoncino della fusaggine, è come maneggiare il ciondolo della propria nonna, lasciata indietro, molti anni fa. Il ciondolo non è mio. Non saprò mai quando è stato indossato, in che occasione. Quali sono stati i primi occhi che lo hanno guardato. Ma posso sentire tutta quella memoria come qualcosa di scritto su di esso in una lingua non alfabetica, non codificata, misteriosa e vibrante, come quella che ho imparato a parlare stando per giorni, per mesi, dentro gli spazi vuoti, nei mausolei della storia con la esse minuscola, gli edifici abbandonati in cui ho fatto le mie prime installazioni ambientali. Ora queste le ricordo a memoria, proprio come le litografie di Redon. E le disegno, ancora una volta, coi mezzi che mi trovo tra le mani. Una riga, se c’è, o altrimenti, un bastoncino, un pezzo di plastica staccato da una serra, una squadra, una matita, un legnetto carbonizzato.
Quando mi chiedono come ho fatto a diventare un artista non so se ho sempre voglia di raccontare questa storia. Altre volte ne racconto un’altra. Racconto di quando negli anni dei carboncini e dei cavalletti, andavo a trovare mia nonna tutti i pomeriggi all’ospedale. E poi, prima di prendere l’autobus con mia madre, chiedevo di entrare per l’ennesima volta in Santa Maria del Popolo, dove c’è Caravaggio, ma, ancora di più, dove c’è il marmo che diventa forme, visi, santi, scheletri, una intera galassia di figure. Ci camminavo dentro come si potrebbe attraversare un quadro. Come oggi ci si muove dentro i miei grandi lavori ambientali. E poi tornavo a casa. Anche qui, non è un ricordo singolo. E’ un’azione ripetuta nel tempo. Con costanza quotidiana. Fino a diventare familiare.
Se sono particolarmente stanco taglio invece corto. A chi mi chiede come ho cominciato, rispondo che giocavo a pallone a Villa Borghese, usando le statue come pali della porta. Questa storia è vera tanto quanto le altre. E appartiene ad un’altra età ancora. Erano gli anni in cui non c’era più un ospedale in cui andare a trovare nessuno. E i miei pomeriggi li passavo coi compagni, lasciando sul prato lo zaino con i carboncini.

Francesca Santambrogio, Pronti, Partenza, Via, 2012 - serie di 4 acqueforti su carta rosaspina, 10 x 15 cm ognuna

Francesca Santambrogio, Pronti, Partenza, Via, 2012 – serie di 4 acqueforti su carta rosaspina, 10 x 15 cm ognuna

Non ho mai avuto verso l’arte nessun tipo di reverenza. Gli ho tirato le pallonate come si tirano al proprio migliore amico che fa il portiere. Mi sono innamorato di certi volti e dire il vero lo faccio ancora. Il de Chirico dei primi Anni Venti ha dipinto tutte le donne da cui mi farei sposare se mi volessero e se fossero vere. L’arte, è sempre stata per me una cosa familiare, perché in essa, quand’anche più onirica, più apollinea, come in Redon appunto, in Moreau o nel realismo magico, ho sempre ravvisato una traccia umana. Non ho mai avuto paura dell’arte. Dieci anni dopo. A posteriori di un naufragio esistenziale mi sono trovato in un palazzo occupato da immigrati, sapendo di me poco più che il mio nome e appeso al vincolo di una promessa: fare un’opera, tirarla fuori da quel silenzio di anni. E così senza quasi aprire gli occhi, ho fatto riemergere Caravaggio, Redon, e il collegio da cui misuravo la mia distanza dalla Terra. E se devo essere onesto, forse, ora che ne scrivo, è anche la prima volta che me ne rendo conto. Quando uscii dalla buca in cui avevo dato vita a quel mio primo lavoro, c’erano persone che con l’arte non avevano niente a che fare ad aspettarmi. Avrei detto che con me avevano c’entravano poco e che gli piacevo meno di quanto loro piacessero a me. Ma proprio allora, mentre uscivo con in mano i resti di una performance da smantellare, erano tutti lì a parlare di quel che avevano visto. Senza nessun timore. Senza usare quella formula che detesto: “Premetto che di arte io non capisco nulla”. Tutti avevano capito quella volta quel che io capivo nelle chiese che mi abbacinavano o sulle pagine del libro di Redon. E io che parlavo a malapena, mi sono reso conto di poter usare un’altra lingua per rimettere piede sulla Terra. L’arte era quel che mi rendeva familiare per una comunità di persone che forse in un museo non aveva mai messo piede. Essi mi avevano dato un ruolo e io ho continuato a interpretarlo. Anni dopo, viaggiando per città povere (la loro ricchezza finanziaria era sempre ininfluente), o per periferie allo sfascio, mi è sempre stato riconosciuto quel ruolo. I ragazzi di Novara che hanno iniziato a combattere la loro battaglia per la cultura in una città senza nemmeno un cinema, gli immigrati e gli zingari del Metropoliz che hanno usato il mio telescopio come una bandiera che dichiarasse la loro esistenza e il loro diritto a sognare, tutti loro mi hanno insegnato che l’artista ha una posizione precisa nella società. Un ruolo che ha a che fare col sangue, con lo spirito, con quello che per noi è massimamente familiare. Di città in città, spesso, mi è stato chiesto di essere quell’enzima che favorisse la sintesi fra l’inquietudine e la consapevolezza. Non di dire la parola, perché non ho parole mie da dire, ma sempre, di allenare il cuore al salto dell’intelletto mi viene chiesto.
In ogni città serve un prete, un sindaco, un farmacista e un panettiere. Negli anni ho capito che serve anche un artista. Che nessuna città senza artisti è mai sopravvissuta. O forse ancora di più, che nessuna città senza artisti è mai vissuta. Il lavoro dell’artista è un servizio necessario. Metterlo per iscritto, dopo tutti questi anni di dissuasione sembra quasi un’eresia. Ma, credo che siano i rallentamenti e le accelerazioni le uniche motivazioni che ci fanno aver bisogno di pregare, di costruire una città in cui poter tornare, di curarci se stiamo male e di mangiare pane se abbiamo fame. E credo anche che gli artisti siano gli allenatori del cuore, quelli che aiutano ognuno a trasformare il rumore monotono di un battito costante in una sinfonia umana. Sono le parole lette e dimenticate di Brecht, Montale, Büchner che un giorno torneranno senza più essere altro che parole mie, per farmi dire a qualcuno quanto io tenga a lui e per costruire un legame umano, da uomo a uomo.

Mara Piras, Senza titolo #04, 2012 - biro su carta da lucido applicata su carta, 30 x 20 cm

Mara Piras, Senza titolo #04, 2012 – biro su carta da lucido applicata su carta, 30 x 20 cm

Se non è per questo, non so perché altro si dovrebbe essere artisti. E a dir la verità, non è dentro il sistema dell’arte che ho imparato queste cose. Ci sono tanti modi per fare dell’arte un mestiere. Michelangelo faceva il mestiere di pittore, scultore, architetto. Faceva parte di quello che allora era il sistema dell’arte. E oggi nel sistema dell’arte ci sono artisti che non sfigurerebbero in un duello coi grandi della classicità. Se penso ai Tentativi di volo di De Dominicis non credo che valgano meno della Pietà. Essi producono nei battiti del mio cuore le medesime variazioni.
Se mi guardo attorno, nell’Italia di oggi, tuttavia, non mi pare che ci sia la consapevolezza di questa funzione. Il sistema dell’arte finisce spesso per ridursi ad un mercato di feticci e lo Stato, che è il corpo della pluralità, è da troppo tempo un corpo che pretende di non aver bisogno di cuore, lasciandosi morire.
L’esercizio della nostra missione, si dà, così, quasi nella clandestinità. Come l’esercizio della medicina per Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli. Varrà la pena di rileggerlo. Varrà la pena di capire perché i contadini che tutto subiscono in silenzio, si ribellano solo quando a quello straniero viene proibito di curare gli ammalati. Sono solo quelli che si sentono morire che oggi si accorgono di quanto l’arte sia necessaria.

Gian Maria Tosatti

Andrea Mastrovito & Cinzia Benigni (a cura di) – Manabile per giovani artisti
Libri Aparte, Bergamo 2013
Pagg. 120, € 8
ISBN 9788895059280
http://www.libriaparte.it/

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