Dialoghi di Estetica. Parola a Federico Ferrari

Ultimo appuntamento dei nostri “Dialoghi di Estetica”, realizzati in collaborazione con LabOnt, prima della pausa estiva. Davide Dal Sasso stavolta incontra Federico Ferrari per una conversazione a tutto campo sullo statuto dell’immagine oggi, artistica e non. E sulla critica, la grande assente…

Nel 2004 descrivevi lo spazio critico come uno spazio di interscambio e di azioni reciproche, nel quale si incontrano artista e pubblico e, insieme a loro, curatori e critici. Per prima cosa ti chiederei di tornare un momento sul ruolo del critico: quali sono i suoi compiti e le sue possibilità di azione in rapporto allo stato attuale dell’arte?
I compiti della critica mi paiono sostanzialmente immutati. La critica dovrebbe svolgere il proprio ruolo di descrizione e valutazione della contemporaneità. Da almeno vent’anni la critica si limita solo alla prima funzione: descrive il mondo, vietandosi un giudizio. Le ragioni di questo comportamento sono molteplici e vanno da questioni epocali – la postmodernità e la fine delle grandi narrazioni – a ben più mediocri ipocrisie e mancanze di coraggio che fanno della maggior parte dei critici odierni dei servi del sistema che, ancor prima di essere censurati, si autocensurano, eliminando ogni giudizio, ogni reale presa di posizione, ogni punto di vista radicale sulla realtà dell’arte odierna, sul suo significato, la sua funzione e il suo destino. Il panorama è, quindi, abbastanza desolante. Questo non toglie importanza alla funzione del critico. Anzi, a ben guardare, rende ancora più urgente che nuovi critici, all’altezza di questo compito, si dedichino a un serio lavoro di valutazione. Per parte mia, ho estrema fiducia che questo passo verrà compiuto ben presto dalla nuova generazione che, disgustata dall’attuale sistema (il quale, tra l’altro, umilia continuamente questa generazione, privandola di un futuro), comincerà a inventare un proprio discorso critico non solo denunciando la vuotezza dell’oggi, ma anche costruendo un linguaggio critico capace di far fronte alla complessità di un nuovo mondo a venire.

Nelle stesse pagine, tracciando la topografia dello spazio critico, hai anche affermato che l’opera d’arte è intrinsecamente connessa al segreto e al mistero: essa nasce nell’ombra e necessita di essere esperita, rivelata, compresa. Pensi che questa condizione dipenda dal fatto che, in gran parte, nelle opere, la matrice concettuale – l’idea – rimane celata e/o inaccessibile?
Sicuramente l’opera d’arte conserva sempre un cono d’ombra, ma non direi che quest’ombra sia connessa a un segreto. Anzi, mi pare che l’idea che l’opera sia l’involucro di un segreto destini l’arte ad un fraintendimento e un conseguente impoverimento. Ossia, l’arte come enigma riduce, in definitiva, il vedere a una forma di lettura, in particolare a una forma di lettura cifrata. L’opera diviene così un puro medium per veicolare un messaggio, forse quello che tu chiami idea o matrice concettuale. Se c’è invece una specificità dell’arte è proprio l’indistinzione tra pensiero e materia, una sorta di indecidibilità fondamentale tra il suo lato materico e la sua forma che, come sappiamo, è la traduzione più esatta del termine greco ἰδέα. È questa coappartenenza di forma e materia che fa dell’opera d’arte una fonte di meraviglia più che di mistero. Più che essere lo scrigno di un’idea, direi che l’opera d’arte mostra ciò che nella materia va oltre la materia. In un certo senso, tutta l’arte è un materialismo estatico.

Federico Ferrari, Il Re è nudo

Federico Ferrari, Il Re è nudo

All’origine del tuo ultimo libro, L’insieme vuoto (Johan & Levi 2013), vi è una premessa in particolare: la questione dell’immagine è intimamente connessa alla metrica, una metrica libera che concerne, in qualche modo, anche il tempo. Come sei riuscito a sviluppare questo tuo esame ontologico, mirando a una pragmatica dell’immagine, che permetta di affrontare tale questione ritmica?
Sì, la questione di una metrica o di una ritmica dell’immagine (o di un’eventuale ritmologia o ritmoanalisi, per usare la lungimirante espressione di un’opera postuma di Henri Lefebvre) è per me un punto fondamentale per comprendere l’immagine oggi. Sono ben lontano dall’aver afferrato il fondo della questione, ma percepisco in modo, per molti versi, ancora oscuro che la questione di un ritmo o pulsazione delle singole immagini e delle immagini nel loro concatenarsi sia fondamentale per cercare di orientarsi oggi, quando la nostra esistenza pare immersa in un flusso continuo di immagini, quello che alcuni chiamano l’iconosfera. Per cercare di farmi comprendere, ti chiedo di provare a pensare un fatto enorme: fino a non molti secoli fa un uomo vedeva in media solo trecento immagini in tutta la sua vita! Queste immagini avevano dunque un ritmo che è del tutto incomparabile con quello a cui è sottoposto un uomo contemporaneo. Ovviamente, come ha mostrato ad esempio Hegel nella sua Scienza della logica, la quantità trasforma la qualità. Quando il ritmo diventa quasi un flusso continuo, anche il ritmo sembra scomparire. Ed è proprio in questo momento che la questione di un ritmo delle immagini diventata centrale. Esiste poi una questione ancora più complessa che è quella del ritmo interno all’immagine, ma qui sia apre un terreno di ricerca che è ancora tutto da indagare e sul quale, forse, gli artisti avrebbero qualcosa da dire o, ancor meglio, da mostrare (esemplare, in questo senso, mi pare il lavoro svolto da Claudia Castellucci; ed altrettanto utile è il lavoro di Ezra Pound, soprattutto nel periodo imagiste).

Le tue riflessioni sulla pragmatica dell’immagine si sviluppano dando risalto da una parte a una “totale aderenza all’immagine” – al suo imprescindibile legame con “la materia come infinita potenza” – e, dall’altra, alle sue potenzialità performative e immaginative, in rapporto a “l’enigma del reale, nella sua differenza dall’immaginario”. Qual è il ruolo dello sguardo ai fini di quella che chiami praxis della visione?
Il ruolo dello sguardo resta un vero paradosso, proprio come la definizione di “insieme vuoto” nella teoria degli insiemi. In quest’ultimo caso, si tratta di un insieme senza elementi, e quindi vuoto, ma senza l’esistenza del quale non potrebbe darsi alcuna teoria degli insiemi. Analogamente, lo sguardo è lo spazio, il luogo vuoto di contenuto, senza il quale non vi sarebbero immagini. Lo sguardo riveste quindi un ruolo fondamentale nella comprensione delle immagini, anche se lo sguardo non è l’immagine. L’immagine conserva una propria autonomia rispetto allo sguardo, benché senza lo sguardo, come detto, non vi sarebbe immagine. Anche in questo caso, come in molti altri punti del libro che citi, ci si scontra con un paradosso fondamentale. La tentazione di ritirarsi davanti al paradosso è quel che bisogna evitare, proprio come i padri della logica contemporanea non indietreggiarono davanti al paradosso dell’insieme vuoto.

Federico Ferrari, L'insieme vuoto

Federico Ferrari, L’insieme vuoto

Nel tuo libro affermi anche che lo sguardo ha una sua condizione di paradossalità che rimanda alla distinzione tra “immagine-mondo” e “immagine del mondo”. Che differenza c’è tra l’uno e l’altro? E quanto è importante questa distinzione al fine di cogliere prospettive e sviluppare interpretazioni possibili, mosse dalle immagini?
Hai ben colto uno snodo importante. Certamente esiste una differenza tra l'”immagine-mondo” e l'”immagine del mondo”. I riferimenti teorici che mi hanno portato a questa distinzione sono molteplici. Per citare alcuni nomi, Wittgenstein, Heidegger, Benjamin, ma anche pensatori a noi contemporanei come Carlo Sini e Bernard Stiegler. Penso, però, che un riferimento maggiore potrebbe essere Peirce quando parla di foglio-mondo, cioè, banalizzando un po’, di una prassi che nel tracciarsi dà vita a un mondo e, moltiplicandosi in un’altra serie infinita di prassi, a un mondo sempre più complesso e illimitato. Ora, se l'”immagine del mondo” si fonda sull’idea che vi sia un mondo che viene poi duplicato nell’immagine e in questa duplicazione, ovviamente, il mondo può essere reso in modo veritiero o falsato (in fondo, è la visione platonica del rapporto immagine-mondo, che è poi quella che ancora adotterà Debord, con la sua rivendicazione di un mondo “autentico” contrapposto alla falsità dello spettacolo), l'”immagine-mondo” considera invece l’immagine come una prassi costituente che dà origine a un “mondo-immagine”, cioè a un mondo concepito come immagine. Quello che conta in un simile approccio è lo slittamento della riflessione sull’immagine verso una pragmatica, che è poi quello che cerco di fare nel libro, ben lontano dall’aver raggiunto risultati all’altezza della complessità del compito. Al di là degli esiti da me raggiunti, quello che mi pare conti è lo spostamento del punto di partenza: non più l’immagine come copia del mondo, ma l’immagine come prassi costituente di un mondo, nella consapevolezza che questa prassi possa poi declinarsi tanto in una riduzione del mondo a pura virtualità manipolabile quanto a creazione di mondi che si sottraggano ad ogni previsione possibile.

Francesco Gennari, La Degenerazione di Parsifal (Natività), 2005-2010 © l’artista, Courtesy Collezione Maramotti, Ph. C. Dario Lasagni

Francesco Gennari, La Degenerazione di Parsifal (Natività), 2005-2010 © l’artista, Courtesy Collezione Maramotti, Ph. C. Dario Lasagni

Ne L’insieme vuoto torni nuovamente sul ruolo del critico, soffermandoti in particolare sul suo rapporto con l’immagine. Di che rapporto si tratta? E, in questo caso, quale sarebbe il compito del critico?Riprendendo la questione del ruolo della critica e dei critici nella società di oggi, quello che a molti sfugge è che l’assenza di una dimensione critica forte, autonoma e incisiva non è un fatto marginale che dipenderebbe dai gusti del tempo, ma è un fatto che porta inevitabilmente con sé l’affermarsi di un pensiero dogmatico. In genere, di fronte ad affermazioni come questa si sorride, poiché si ritiene che la nostra sia una società aperta ed estremamente libertaria. In realtà, questa idea che noi abbiamo di noi stessi, quest’immagine di uomini liberi e aperti rispetto ad altre epoche o ad altre parti del mondo, è già il frutto di un pensiero acritico e totalitario. Noi, dicendo che nella nostra società siamo radicalmente liberi, ci accechiamo, ad esempio, sul fatto che la nostra società non è più solamente la “nostra”, ma è una società globalizzata, cioè totale, e in quanto totale anche potenzialmente, e per molti versi già, totalitaria. Sempre per la mancanza di un pensiero critico forte e diffuso non ci rendiamo poi conto che questa società totale vive, pensa e decide del proprio presente e del proprio futuro all’interno di un unico paradigma di pensiero che potremo definire un funzionalismo economico-finanziario, il quale riduce ogni aspetto del vivente alle sue categorie di efficienza, ottimizzazione, successo mediatico, consenso (si pensi, per fermarsi al settore dell’arte, come questo totalitarismo incida sulla produzione di tutte le biennali, triennali, quadriennali del globo o come influisca nella programmazione dei musei, nella scelta dei loro direttori, come diventi dogma nelle redazioni delle riviste, nei magazine generalisti, nelle rubriche dei “femminili”, ecc. E, come tutto questo, ovviamente determini poi la vita e l’opera degli artisti e quindi dell’arte di oggi). Quello di cui non ci rendiamo conto è che questo mondo di libertà totale e di scelta infinita che, secondo alcuni, non avrebbe più necessità di una dimensione critica, è un mondo in cui il massimo di scelta possibile, come ebbe a dire alcuni anni orsono Zizek, è tra la Pepsi e la Coca. Ora, per venire più nello specifico alla tua domanda, questo mondo totale e totalitario venne descritto negli anni Trenta da Martin Heidegger, debitore delle analisi di Ernst Jünger, come un “mondo concepito come immagine”, analisi poi ripersa da Debord, negli anni Sessanta, nel suo celebre libro La società dello spettacolo. Entrambi, seppur con terminologie filosofiche differenti, comprendevano che questo mondo-immagine è l’effetto di una trasformazione epocale del mondo, attraverso la tecnica e il capitalismo economico-finanziario.

Federico Ferrari, Sub Specie Aeternitatis

Federico Ferrari, Sub Specie Aeternitatis

Il mondo-immagine è un mondo in cui l’immagine diviene il nuovo legame sociale profondo: si comunica a partire da immagini, da fatti televisivi e dei più svariati media, da schermi di smartphone che, tramite sistemi operativi Windows e similari, diventano reali finestre sul mondo. Nel mondo-immagine, l’immagine non è più un ornamento o un supplemento, ma è il luogo del dispiegarsi o del rivelarsi del senso dell’essere, per dirla con una terminologia heideggeriana. È quindi chiaro che se il punto più evoluto del tecno-capitalismo, lo stesso capitalismo che dà origine a un governo del mondo dei tecnici, è legato a una riduzione del mondo ad immagine, allora compito primo del critico è confrontarsi con la questione dell’immagine, cercando di capire come le immagini funzionino, come costruiscano senso e come lo occultino. Non si tratta, chiaramente, di contrapporre al totalitarismo dogmatico del mondo-immagine un’iconoclastia talebana, bensì di smascherare le insidie di un mondo in cui la distinzione tra l’immagine e il fatto sembra aleatoria, se non impossibile, senza ricadere in un’ingenua contrapposizione tra immagine e fatto. Si tratta cioè di capire come fare cose con le immagini, parafrasando una celebre formula di Austin, nella consapevolezza che le immagini già stanno facendo cose, stanno, cioè, creando, con questo loro “fare”, una società planetaria dell’immagine. La critica delle immagini, quindi, ben lungi dall’esaurirsi in una questione estetica, è un modo per pensare l’ordine del mondo in cui viviamo, il suo modo di fare senso e non-senso.

Gianni Caravaggio, Principio, 2008 © l’artista, Courtesy Collezione Maramotti, Ph. C. Roberto Marossi

Gianni Caravaggio, Principio, 2008 © l’artista, Courtesy Collezione Maramotti, Ph. C. Roberto Marossi

Un’ultima domanda: qual è la tua posizione a proposito del ruolo che potrebbe avere il realismo speculativo in rapporto all’elaborazione delle teorie dell’arte?
Debbo dire che a quest’ultima domanda non so dare una risposta precisa. Le ragioni sono molteplici. La principale è strettamente personale ed è dovuta a un mio soggiorno pluriennale fuori dall’Italia che mi ha fatto perdere tutto il dibattito che so esservi stato in questi anni a proposito di una contrapposizione tra gli eredi di un’ermeneutica postmoderna, da una parte, e nuovi realisti, dall’altra. Non entro quindi in un dibattito che non conosco. Mi limito a riflettere su una presunta opposizione, ben più antica di ogni odierno dibattito, tra una visione nominalista e una realista, declinata in relazione a una mia esperienza sul campo inquieto dell’arte contemporanea. Dopo interi decenni di quello che Thierry de Duve, sulla scia di Duchamp, ha chiamato un “nominalismo pittorico”, alcuni anni orsono ho cercato di portare l’attenzione su una dimensione “essenziale” dell’arte. Ho cercato, cioè, di portare nuovamente l’attenzione sul sostantivo “arte” piuttosto che sugli aggettivi (concettuale, relazionale, minimale, povera, pop, politica, ecc.) che nel secolo scorso avevano, poco alla volta, svuotato il sostantivo di sostanza. La questione si poneva, quindi, come il tentativo di ripensare cosa fosse l’essenza del gesto artistico, al di là dei predicati che potevano definirlo. Per l’arte la questione dell’essenza si è rivelata essere strettamente correlata alla questione della sua prassi, del suo gesto creatore. In un certo senso, l’essenza dell’arte si è rivelata non come un dato ma come una prassi costitutiva o performativa. La questione dell’essenza aveva quindi a che vedere con una prassi, con un fare e non con una teoria, con un semplice nominare, con una semplice convenzione linguistica. Ma, allo stesso tempo, questo fare non era mai riducibile a un fatto, a un già dato che si sarebbe trattato solamente di scoprire. La questione dell’essenza dell’arte, almeno per come io arrivavo a formularla nel testo e nella mostra “Arte essenziale”, mi sembrava – per venire infine alla tua domanda – mettere in crisi ogni opposizione tra nominalismo e realismo; mi sembrava cioè spostare il centro della discussione da una dimensione ontologica (che ovviamente ogni diatriba tra realismo e nominalismo porta con sé), a una questione, per me, più complessa ed interessante, cioè al problema di una pragmatica, cioè un livello di interrogazione sulle prassi costitutive e costituenti. Con questo non voglio dire che la questione ontologica sia priva d’importanza, ma reputo che ogni ontologia derivi da una pragmatica e non viceversa.

Davide Dal Sasso

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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