Sanford Biggers: Django Unchained in salsa quilt

L’artista afro-americano Sanford Biggers sbarca a Milano con una mostra carica di storia e simbologie. Dagli schiavi d’America all’hip hop contemporaneo, tutto viene remixato e reinterpretato. Daniele Perra l’ha incontrato per Artribune.

Quilts creati originariamente dagli schiavi d’America diventano la superficie su cui sovrapporre e lasciare tracce, come la sagoma di un nero martoriato dalle torture, tratta da una vecchia fotografia in bianco e nero. Manufatti carichi di storia su cui imprimere altri racconti e simboli. Come i tessuti incorporati nelle trapunte che riprendono l’immagine del fiore di loto i cui petali, nelle mani di Sanford Biggers (Los Angeles, 1970; vive a New York), si trasformano in sezioni delle navi degli schiavi. O ruvide nuvole di cotone sospese in aria. Come un dj, l’artista afro-americano mixa abilmente passato e contemporaneità, fonti e stili diversi, con un obiettivo: “raccontare”, attraverso interventi pittorici su tessuti, sculture, installazioni, video e performance, la storia degli schiavi d’America e del razzismo mai sopito. La mostra da Massimo De Carlo è una sintesi dello spirito eclettico di Biggers, che invita a “guardare” la storia con altri occhi. Lo abbiamo incontrato.

Vorrei cominciare dal titolo della mostra, che è piuttosto intrigante. Perché Sugar, Pork, Bourbon?
Qualche anno fa sono stato invitato al Kentucky Derby, la celebre corsa di cavalli. Ne avevo sentito parlare, ma non mi era mai capitato di andarci. Quando ho ricevuto l’invito mi sono detto: “Perché no, dovrebbe essere interessante”. La mattina prima della gara nella casa dove ero ospite hanno servito una colazione con zucchero di canna caramellato, pancetta e mint julep, un drink a base di zucchero, bourbon e menta. Ho annotato queste tre parole – sugar, pork e bourbon – perché mi piaceva il loro suono. Quando mi sono trovato a pensare a un titolo per la mostra, ho recuperato quegli appunti dal mio taccuino. Le parole sugar, pork e bourbon hanno un ché di squisito e decadente, ma soprattutto incarnano molti aspetti del Sud in America e hanno molte connotazioni. Il Sud e la tradizione fanno parte del mio lavoro.

Sanford Biggers - Sugar, Pork, Bourbon - veduta della mostra presso Massimo De Carlo, Milano/Londra 2013 - photo Roberto Marossi

Sanford Biggers – Sugar, Pork, Bourbon – veduta della mostra presso Massimo De Carlo, Milano/Londra 2013 – photo Roberto Marossi

Qual è la storia dietro ai quilts? Sono trapunte originali fatte dagli schiavi, giusto?
Erano tutti realizzati dagli schiavi, ma si dice che venissero usati nell’Underground Railroad come segni per gli schiavi in fuga. Tutti i quilts in mostra risalgono al XVII e XVIII secolo. Si narra che venissero posizionati fuori dalle case e dalle chiese, e quando uno schiavo in fuga passava durante la notte poteva leggerli e capire se quel luogo era sicuro o meno. Erano una sorta di mappa che indicava le vie da percorrere per raggiungere il Nord. Avevo alcuni di questi quilts su cui stavo dipingendo nel mio studio. Un giorno è venuta una collezionista che vendeva e collezionava anche lei quilts, ma avendone raccolti centinaia, voleva liberarsene e me li ha donati. Così ho cominciato a studiarli, a conoscere i diversi pattern e a intervenire su di loro.

Sei nato a Los Angeles, hai trascorso un lungo periodo in Giappone e hai viaggiato in tutta Europa. Qual è il tuo rapporto con l’Africa, invece?
Non posso parlare a nome di tutti gli afro-americani. C’è senz’altro una relazione mitologica con l’Africa. Fino a oggi sono andato solo una volta nell’Africa Occidentale. Pare che abbia origini senegalesi. Ma sono cresciuto imparando aspetti della cultura africana, della musica, dell’arte, della religione. Era un modo per conoscere meglio non solo il lato americano della storia della mia famiglia.

Sanford Biggers, Quilt #20 (Zora), 2013, dettaglio. Foto Roberto Marossi. Courtesy Massimo De Carlo, Milano/Londra

Sanford Biggers, Quilt #20 (Zora), 2013, dettaglio. Foto Roberto Marossi. Courtesy Massimo De Carlo, Milano/Londra

Una recente copertina intitolata Aspiring Africa del settimanale The Economist era dedicata all’Africa, con un reportage di quattordici pagine sul “continente con la più rapida crescita al mondo”. Da poco è anche nata una piattaforma online per l’arte internazionale vista dalla prospettiva africana. È giunto il tempo di un riconoscimento, anche nell’arte?
Penso che l’Africa abbia avuto grande attenzione sin dai tempi dei cubisti. I tessuti africani inoltre sono nella moda da molti anni. Forse è arrivato il momento che le persone lo accettino. Il mondo cerca sempre qualcosa di nuovo in qualcosa di vecchio. È giunto il tempo che all’Africa sia dato questo riconoscimento.

Nel video Bittersweet The Fruit suoni il piano nudo. Usi il tuo corpo come forma di “rappresentazione” d’identità?
Esattamente. In quel lavoro non c’è Sanford Biggers ma il corpo di un nero. Può essere un africano o un afro-americano. Non mostro mai il volto nel video. È un archetipo per rappresentare un gruppo molto più esteso.

Gli alberi sono elementi molto importanti nel tuo lavoro, da Blossom a Cheshire. Riportano anche al rito del linciaggio, quell’orribile forma di punizione usata dai bianchi sugli schiavi afro-americani. Penso alla tua opera Blossom riferita a un fatto di cronaca successo in un piccolo paese in Louisiana tra il 2007 e il 2008. L’albero in Blossom era però di acciaio e le foglie realizzate in seta. Più che alla natura sembri interessato a “icone” che possono rappresentare e condensare la storia del razzismo in America…
In parte sì. È un aspetto del riferimento agli alberi. L’altro aspetto è più ottimistico e persino spirituale. L’albero è uno dei più significativi “registratori” dei tempi antichi. Perché registra la terra, il tempo e attraversa la storia. Da un lato quindi c’è la storia del linciaggio e del razzismo, dall’altro da quella stessa storia si ricava forza e saggezza.

Sanford Biggers - Sugar, Pork, Bourbon - veduta della mostra presso Massimo De Carlo, Milano/Londra 2013 - photo Roberto Marossi

Sanford Biggers – Sugar, Pork, Bourbon – veduta della mostra presso Massimo De Carlo, Milano/Londra 2013 – photo Roberto Marossi

Il pianoforte nella tua installazione Blossom suonava la celebre canzone Strange Fruit interpretata da Billie Holiday. Il testo era stato scritto nel 1930 da Abel Meeropol. Vorrei citare alcuni versi – “Black Bodies swinging in the southern breeze Strange fruit hanging from the poplar trees” – per chiederti: chi sono gli schiavi di oggi?
Oh… sono tanti. Schiavi della tecnologia, dell’economia, della politica. Tutti coloro che non hanno accesso.

Ti sentiresti a tuo agio se ti definissi un “narratore”?
Sì, perfettamente. Creare una storia non significa che debba essere necessariamente letteraria. Ci sono molti modi per creare una narrazione. Tutti i miei lavori vanno visti nel loro insieme perché sono collegati e, nel tempo, hanno creato una loro sintassi.

Qual è il ruolo della musica nel tuo lavoro e nella tua vita?
È molto importante. La musica, rispetto all’arte, è una lingua franca. Più persone possono accedere alla musica piuttosto che all’arte. La musica permea la società internazionalmente.

Le tue opere lasciano un retrogusto emozionale.
Sugar, Pork, Bourbon!

Daniele Perra

Milano // fino al 18 maggio 2013
Sanford Biggers – Sugar, Pork, Bourbon
MASSIMO DE CARLO
Via Ventura 5
02 70003987
[email protected]
www.massimodecarlo.it

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Daniele Perra

Daniele Perra

Daniele Perra è giornalista, critico, curatore e consulente strategico per la comunicazione. Collabora con "ICON DESIGN", “GQ Italia”, “ULISSE, "SOLAR" ed è docente allo IED di Milano. È stato fondatore e condirettore di “unFLOP paper” e collaboratore di numerose testate…

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