“Una lunga amicizia intellettuale”. Giulio Carlo Argan e la critica d’arte nel Novecento secondo Gillo Dorfles

Una intervista che mette a confronto due giganti dell’arte italiana. Fra Gillo Dorfles e Giulio Carlo Argan si inserisce con le sue domande Claudio Gamba, in una conversazione realizzata nel novembre del 2009. Che qui potete leggere o vedere in video. Ed è solo un assaggio di un libro straordinario appena licenziato da Electa, che raccoglie interventi - fra gli altri - di Maurizio Calvesi, Salvatore Settis e Paolo Portoghesi.

Professor Dorfles, quest’anno ricorre il centenario della nascita di Giulio Carlo Argan. Il vostro percorso biografico e critico presenta numerosi punti di contatto, non solo e non tanto da un punto di vista anagrafico quanto dal punto di vista delle scelte e delle aree di intervento. Se dovesse tratteggiarne un ricordo o, se preferisce, una sintesi critica della figura intellettuale di Argan, cosa racconterebbe?
La personalità di Argan, non ho bisogno di dirle, era molto complessa, ed era complesso anche il mio rapporto con lui, che è stato lungo, persistente, fino praticamente alla fine, ma non con quella intimità che poteva esserci con altre persone. In altre parole, il mio rapporto con Argan è stato soprattutto un rapporto intellettuale. Per quanto io avessi conosciuto bene la moglie, Anna Maria Mazzucchelli, e la figlia Paola, avessi frequentato moltissimo Palma Bucarelli, che – come si sa – aveva molti rapporti, durante tutta la vita, con Argan, però non ho mai avuto con Argan una intimità di rapporti – diciamo così – affettuosi. Bisogna tenere conto anche che la personalità di Argan era molto insolita nei suoi rapporti umani, ossia era poco aperta a degli incontri affettivi improvvisi. Per cui la sua riservatezza, e anche la mia riservatezza, hanno fatto sì che il nostro rapporto è stato sempre un rapporto soprattutto intellettuale. Però questo rapporto è durato moltissimo. Prima della guerra io non l’avevo ancora incontrato, ma dagli Anni Cinquanta in poi, attraverso gli episodi dei convegni di San Marino, di Verrucchio, dei vari incontri dell’AICA, cioè dell’Associazione dei critici d’arte, in Italia e fuori d’Italia, praticamente si può dire che ogni anno io ho incontrato Giulio Carlo Argan.

Il primo contatto fu al momento in cui nacque il MAC, il Movimento per l’Arte Concreta? Che cosa significò la presentazione che fece Argan alla vostra cartella di litografie della Libreria Salto?
Questo incontro è stato molto importante. Non dimentichiamo che quando noi, cioè Bruno Munari, Atanasio Soldati e io stesso, fondammo questo Movimento per l’Arte Concreta erano gli anni 1948-1950, quindi l’immediato dopoguerra, per cui il nostro tentativo era soprattutto quello di una rivolta contro l’arte della Sarfatti, tanto per fare un nome ben noto, cioè l’arte del fascismo, l’arte celebrativa, compreso l’ottimo Guttuso, l’arte che ancora era legata al primo Novecento. Per cui il fatto che Argan, dei critici di allora, fosse uno di quelli che accettavano questa nostra posizione, insieme a Umbro Apollonio, insieme ad altri critici, ma non a tutti ovviamente, per noi era stato di estrema importanza, anche perché il Movimento era sorto a Milano e quindi soprattutto nell’area lombarda: c’era Giuseppe Marchiori come critico diciamo militante del nord (insieme ad Apollonio) ma naturalmente Argan rappresentava già allora il culmine della critica impegnata, culturalmente impegnata e anche politicamente impegnata. Per cui il fatto che Argan approvasse, in un certo senso, si interessasse al Movimento per l’Arte Concreta è stata una cosa di grandissima importanza, anche se il Movimento non era partito dalle posizioni di Argan. In altre parole, il nostro Movimento non era partito da un rapporto con la poetica del Bauhaus (e dico “il” e non “la” Bauhaus, come invece Argan intitolò il suo libro, cosa che non fu ben vista da quelli che già conoscevano il Bauhaus).

Gillo Dorfles “Una lunga amicizia intellettuale”. Giulio Carlo Argan e la critica d’arte nel Novecento secondo Gillo Dorfles

Gillo Dorfles

Lei ha sicuramente avuto una formazione eterodossa, non apparteneva in modo organico alla storia dell’arte (intesa anche in senso disciplinare e accademico). Lei è rimasto al di fuori dalle contrapposizioni tra i diversi orientamenti, primo fra tutti quello tra venturiani e longhiani, o in qualche modo si schierò, prese parte e che posizione aveva rispetto alle scuole di Argan, di Brandi, di Ragghianti?
In quell’epoca gli schieramenti venturiano e longhiano erano certamente molto importanti, ma erano legati molto alle figure di questi due personaggi. Per esempio, da parte mia c’era una netta simpatia per Lionello Venturi e una minore simpatia per Roberto Longhi, a prescindere dal loro valore critico. Effettivamente, credo che non solo da parte mia, ma anche di molti critici del nord ci fosse una preferenza per Lionello e quindi per il venturismo. Ricordo, per esempio, uno degli incontri dell’AICA, dell’Associazione dei critici, a Dubrovnik, a Ragusa in Dalmazia, in cui era presente anche Venturi. Il fatto che Argan fosse più venturiano che longhiano, per noi era molto importante. Era poi molto importante che Cesare Brandi, per il quale avevamo moltissima simpatia e anche molto rispetto, avesse con Argan una specie di fraternità intellettuale. Devo dire che all’epoca i libri di Brandi, insieme naturalmente a quelli di Argan (soprattutto quello sul Bauhaus), erano stati fondamentali.

L’uso del termine “gusto”, che lei ha tante volte adottato, era legato all’accezione che ne aveva dato Lionello Venturi e che Argan voleva fosse dirottato più nel senso di intenzionalità, soprattutto in senso fenomenologico?
È un po’ difficile dare una risposta esatta, però certo Argan aveva un interesse soprattutto teorico per le arti, soprattutto per l’arte visiva, in altre parole – non per accusarlo – ma effettivamente molto spesso Argan aveva soprattutto l’interesse per l’aspetto cerebrale, creativo-concettuale dell’arte, piuttosto che per la sensibilità immediata, cioè per la sensibilità diciamo patetica verso l’opera d’arte.

Che cosa ha rappresentato, per voi, la fenomenologia, in particolar modo nell’accezione che ne aveva data Enzo Paci? Intendo dire l’applicazione della fenomenologia nel campo dell’arte del passato e ancora di più delle correnti o delle “ultime tendenze” che si sono succedute nel Novecento?
Non dimentichiamo che Enzo Paci, che insieme a me aveva fondato e diretto la rivista Aut aut, ebbe una importanza notevolissima su tutta la critica e anche sulla comprensione dell’arte. Era uscita da poco la mia traduzione del libro di Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, e sia il libro di Arnheim che le altre posizioni fenomenologiche, husserliane eccetera, avevano avuto un’importanza notevole, in un certo senso anche oltre quello che era l’interesse di Argan.

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Gillo Dorfles e Lucio Fontana nel 1964

Lei prima ha ricordato il libro di Argan, uscito presso Einaudi nel 1951, Walter Gropius e la Bauhaus. Che cosa rappresentò quel libro per lei, che tra l’altro recensì subito sulla rivista di Paci Aut aut; cosa rappresentò questo impegno di uno storico dell’arte sulle questioni dell’architettura contemporanea e della pedagogia formale del Bauhaus, come la definiva Argan nel libro?
Ricordo che negli anni immediatamente precedenti la guerra, andavamo spesso in una libreria di Milano che si chiamava Salto, quella che poi pubblicò i bollettini del MAC, proprio a vedere le copie rarissime del “Bauhaus” che allora non si trovavano. Eravamo a Milano tra i pochi ad aver preso in mano questi fascicoli. Quindi l’uscita del libro di Argan, che in un certo senso divulgava quello che era contenuto in questi fascicoli sparsi del “Bauhaus”, è stato fondamentale non solo per la critica ma anche per la creazione pittorica.

Argan fu, tra gli storici dell’arte, uno dei pochi che si occupò anche di argomenti a lei molto congeniali come l’architettura contemporanea, l’urbanistica, il design, l’educazione artistica, questioni di estetica e di comunicazione visiva, fino ai fenomeni del costume, della moda o più generalmente del gusto. C’era in qualche modo una forma di pregiudizio diffuso, anche in studiosi molto intelligenti e preparati, nei confronti di questi temi?
Senz’altro, non c’è dubbio che allora pochi dei critici e degli storici dell’arte guardavano al design e all’architettura come a qualcosa di analogo o, diciamo, di equiparabile alla scultura e alla pittura, quindi anche in questo senso Argan ha avuto una importanza notevole. Non dimentichiamo che la sua presenza, sin dall’inizio, agli incontri di Verucchio, è stata molto importante, perché in quegli incontri si è tenuto conto dell’architettura d’avanguardia, del razionalismo. Mentre noi, del gruppo del MAC, cercavamo in un certo senso di manipolare le due correnti artistiche. Mi ricordo, facendo addirittura una esposizione all’Annunciata di modelli di motociclette dipinti dai diversi pittori; una cosa piuttosto balorda se vogliamo dire, ma era un tentativo di unire pittura e design. E così anche nei convegni di Verucchio, Argan seguì molto questa cosa.

La grande polemica scoppiò in occasione del primo convegno a cui Argan diede una impronta fondamentale nel 1963. Polemica sulle posizioni di Argan, il quale sosteneva che il critico dovesse formare un sodalizio operativo insieme con gli artisti e che quindi la funzione della critica entrasse direttamente nel farsi dell’opera d’arte e allo stesso tempo che nel farsi dell’opera d’arte ci fosse una componente critica molto forte. La sua posizione, nel rapporto tra artista e critico, quale è?
Direi che in questo sono solidale con le posizioni di Argan. Credo che effettivamente possa essere utile per l’artista avere un giudizio critico anche appassionato e d’altro canto credo che il critico dovrebbe avere una visione molto più intima per la pittura. Ossia, per poter giudicare un’opera d’arte dovrebbe, se non proprio sempre dipingere, conoscere almeno le tecniche e le poetiche, da vicino e non solo da un punto di vista teorico.


Dalla fine degli Anni Sessanta Argan è tornato più volte sul tema della crisi irreversibile del sistema tecnico delle arti, sul tema della cosiddetta morte dell’arte, intesa come difficoltà di sopravvivenza dell’arte, o meglio del complesso di tecniche in grado di produrre valori estetici e sociali, all’interno della società capitalistica. Su questo personale svolgimento del tema hegeliano della morte dell’arte mi pare che le sue posizioni siano state e siano tuttora su un altro piano, forse divergenti, più ottimistiche rispetto a quelle di Argan, è così?
Sì, io non ho mai accettato molto volentieri questo problema della morte dell’arte. In altre parole, posso dire che naturalmente muoiono certe correnti, la stessa corrente del MAC è morta dopo dieci anni, come del resto è successo per l’arte povera, il concettualismo, per non parlare delle correnti purovisibiliste o macchiaiole o così via. Che l’arte muoia continuamente è vero, ma per risorgere. Non ho mai creduto a una morte dell’arte in quanto scomparsa della pittura o della scultura.

Come giudicò il passaggio di Argan alla politica attiva, la nomina a sindaco di Roma e poi a senatore? Critica e politica sono strutturalmente, irriducibilmente diverse o c’è invece al fondo una radice comune, nella funzione di comprensione, di indirizzo e magari di miglioramento delle condizioni delle comunità, della coesione sociale degli individui?
Nel caso di Argan credo che la sua posizione di sindaco sia stata senz’altro lodevole, non credo che abbia agito in maniera sbagliata. D’altro canto, però, credo che per lui sia stato negativo essere sindaco di fronte alla vox populi, che naturalmente trova sempre da ridire e quindi giudicava male quella che per Argan non era una ambizione ma un vero interesse politico. Non dimentichiamo che la posizione politica di Argan era abbastanza netta, quindi si poteva giustificare che come sindaco sottolineasse le sue preferenze politiche. D’altro canto ci sono stati anche molti casi di artisti e scrittori che sono stati anche ottimi uomini politici, come Octavio Paz in Messico oppure Václav Havel in Cecoslovacchia.

Quale è il suo ricordo dell’uomo Argan, degli incontri avuti con lui?
Non intendo parlare delle vicende private di Argan, però certo è abbastanza interessante la dicotomia tra quello che era l’Argan severo giudice impeccabile e quello che era l’Argan molto sensibile alle passioni e ai sentimenti. Ma certo, come abbiamo detto, io ho conosciuto soprattutto l’Argan teorico delle arti, interessato all’aspetto cerebrale, creativo-concettuale dell’arte. Infatti mi ricordo che una volta io esposi a Roma, e allora Argan venne al vernissage e cominciammo subito a parlare, naturalmente, dei movimenti, dell’arte, astratta o meno, e così via, facendo tutto il giro della Galleria. Durante questo giro, però, Argan non aveva guardato assolutamente i miei quadri, cioè non è che non li avesse visti, ma gli interessa talmente il discorso che stavamo facendo che si era dimenticato di guardarli. E direi che questo caratterizza molto bene quella che era la visione dell’arte di Argan, il quale era capace di fare un articolo estremamente impegnato, perfettamente coerente sopra un artista, io credo anche se non l’avesse visto.

Claudio Gamba

Claudio Gamba (a cura di) – Giulio Carlo Argan. Intellettuale e storico dell’arte
Electa, Milano 2012
Pagg. 544, € 44
ISBN 9788837091019
www.electaweb.it

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