Nostalgia di Karl Marx Strasse

Con gesti e materiali semplici, Serena Vestrucci, mette in discussione il ruolo dell'artista e dello spettatore. E non solo. Sfida le regole del mercato, barattando le sue opere o prestandole ad altri artisti a corto di idee. Classe 1986, dopo un periodo berlinese si trasferisce a Venezia per frequentare lo Iuav e la residenza alla Bevilacqua La Masa. Ha determinazione e idee chiare. Il giusto binomio per raggiungere grandi traguardi.

Musica e libri che hai per le mani al momento.
Ascolto il Violino Tzigano e con molto piacere continuo a riprendere instancabilmente Scritto di notte di Ettore Sottsass, L’uccello e la piuma di Luca Cerizza e 25 modi per piantare un chiodo di Enzo Mari. I buoni libri si possono riaprire a caso, e, lì dove ci si trova, ricominciare a leggerli. Così come per i film. Penso a Mamma Roma: si arriva al punto in cui è possibile iniziarlo a metà e commuoversi per quanto è denso.

Ecco, parliamo di cinema.
Non so quante volte ho visto Teorema. Sento di non averlo capito del tutto. E questo mi porta a un frequente desiderio di guardarlo ancora, e per la prima volta. Lo stesso per Le notti della luna piena di Éric Rohmer e Fata Morgana di Werner Herzog.

Luoghi. Dove vorresti essere ora? A Berlino, scommetto…
Già. Tra Skalitzerstrasse e Hermannstrasse. Non c’è nulla di straordinario tra quelle vie, ma sento una forma di innamoramento per il quartiere di Rathaus Neukölln…

I maestri che ti hanno ispirato e i “colleghi” artisti coetanei a cui ti senti vicina.
Penso spesso a quanto darei per poter tornare indietro e conoscere Duchamp, Fabro e Boetti. A volte, di notte, sogno di chiacchierare con loro; mentre di giorno sono felice di avere amici come Elisabetta Alazraki, Derek Di Fabio e Davide Stucchi.

Mi ha colpito il tuo continuo porti questioni. L’ultima domanda che ti sei fatta?
Cosa succederebbe se anche i film o i libri seguissero la moda del Senza titolo? Potrei consigliarti Senza titolo di Calvino e Senza titolo di Mann. Penso che nominare il proprio lavoro sia uno sforzo per capirlo, un esercizio per conoscerne la sostanza. Che si tratti di una sola parola o di un periodo complesso, l’articolato tentativo di riduzione al titolo diventa un lavoro di approfondimento, in un primo tempo, e di sintesi, in un secondo.

Il tuo lavoro sembra scaturire dalla messa in discussione del ruolo d’artista e di quello dello spettatore. Come?
Concordo con Boetti nel ritenere che le mostre personali siano mostre collettive. Ogni cosa è influenzata dalla propria storia individuale e da quella collettiva in cui viviamo: il mio lavoro allora è un momento di coincidenza, o addirittura scambio, con il tuo esserci. Da Duchamp sappiamo non esistere produzione senza consumo: un concetto non consumato è un concetto mai pensato; ma, all’interno di tutto questo, non mi sono ancora chiari i confini dell’uno e dell’altro.

Sfidi le regole del mercato, dando in prestito le tue opere a un altro artista quando è a corto di idee, barattandole con altri lavori, e a volte le regali, con l’unica condizione di deciderne la collocazione.
Non è uno sfidare le regole, ma una prova per vedere cosa succederebbe se si cambiasse gioco. Scala Quaranta non è una sfida a Machiavelli, ma solo un’altra situazione.

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Serena Vestrucci - Tu mi hai detto cosa e io l’ho fatto - 2010

Usi materiali come fogli da disegno, di plastica, adesivi o da collage, pennarelli, colori e compensato. La forma viene dopo?
La forma viene unicamente quando mi tolgo dalla testa di fare un bel lavoro. Si tratta di capire che ciò che sto facendo non è niente di diverso da ciò che farei nonostante l’arte. Meno mi sento artista, meglio è.

Da piccola, tuo padre chimico ti chiedeva cosa vedessi in un bicchiere d’acqua e tu rispondevi di vederci tutto ciò che stava intorno e dietro. Oggi, cosa ci vedi?
Là dove vedevo una trasparenza, oggi vedo una sorta di lente attraverso cui gli oggetti circostanti appaiono ingranditi. Mi piace pensare a un bicchiere d’acqua come dispositivo per vedere il mondo più vicino.

A Milano, nello spazio UniCredit Studio, hai portato anche una piccola barca, intitolata Paesaggio, che hai costruito a quattro mani e hai varato in Laguna. Qual è la tua idea di paesaggio oggi?
Penso all’idea di aperto: è paesaggio ciò che è fuori dallo studio, fuori da casa, fuori da una mostra… Quando ho costruito insieme a un giovane architetto la barca a cui ti riferisci, m’interessava lavorare mesi all’interno di uno spazio, realizzando un mezzo con cui poi uscire e guardare quanto, intanto, mi ero persa. Un modo per vedere potenzialmente infiniti paesaggi, all’aperto.

Daniele Perra

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #3


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Daniele Perra

Daniele Perra

Daniele Perra è giornalista, critico, curatore e consulente strategico per la comunicazione. Collabora con "ICON DESIGN", “GQ Italia”, “ULISSE, "SOLAR" ed è docente allo IED di Milano. È stato fondatore e condirettore di “unFLOP paper” e collaboratore di numerose testate…

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