Biennali e fiere. Stiamo perdendo il conto?

Biennali e fiere, non se ne può fare a meno. Prima della Grande Crisi del 2008 si diceva che la maggior parte sarebbero scomparse e per qualcuna il biennio successivo è stato davvero fatale. Ma per una che ne muore, due ne nascono, perché in realtà i grandi eventi internazionali temporanei alimentano le nuove egemonie culturali globali. E contribuiscono a definire la nuova geografia dell’arte. Una riflessione globale, in attesa che inizino le kermesse di Istanbul e Lione.

Quante sono le biennali nel mondo? Circa 160, se vogliamo stare ai dati censiti da Artfacts.net, in larga prevalenza europee e con significative appendici nei Paesi dell’Est; ma crescono anche nelle grandi città asiatiche, e poi ci sono quelle “no limits”, ai confini del mondo. Per dire, ci sono biennali dalle parti del Circolo Polare, nel distretto siberiano, in Mongolia e pure nella Terra del Fuoco.
Non esiste un modello, anzi proprio sulla diversità si gioca la partita. La Riwaq Biennale, giunta alla quarta edizione, è promossa da un’associazione non governativa fondata a Ramallah nel ‘91 con lo scopo di sostenere la conservazione del patrimonio culturale palestinese. Transitata anche per la Biennale veneziana numero 53, nell’ambito del Padiglione Palestinese allestito alla Giudecca, l’organizzazione punta a iniziative che hanno come obiettivo la conoscenza di luoghi di forte identità culturale, localizzati in territori tormentati da conflitti e divisioni.
Fuori dallo spazio e dal tempo si colloca invece Time Machine, la Biennale di Konjic in Bosnia-Erzegovina, la cui prima edizione chiude il prossimo 27 settembre. Allestita in un bunker antiatomico dell’esercito jugoslavo, la location in questo caso non ha solo un significato simbolico, ma obbliga a fare i conti con le condizioni di isolamento fisico e psichico che la caratterizzano, inducendo la sensazione di un salto all’indietro nel tempo. ARCA, questo il nome del bunker, è un luogo isolato dal mondo esterno, impermeabile a qualsiasi forma di comunicazione e pertanto un cono d’ombra rispetto alle reti globali che condizionano nel bene e nel male il nostro tempo.

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Bunker di Konijc, in Bosnia Erzegovina

A fronte di un ruolo indubbio nell’elevare all’attenzione del pubblico temi sostanziali dell’attualità come le biodiversità e l’emancipazione, i problemi ambientali e il ruolo dell’arte pubblica, i modelli alternativi di crescita e sviluppo, le biennali contemporanee nascono fragili. Sotto l’ombrello concettuale del termine ‘biennale’, che diventa più una dichiarazione d’intenti che vero e proprio progetto di lungo periodo, si celano spesso occasioni del tutto contingenti, organizzazioni facilmente permeabili da parte di interessi terzi nel campo del mercato dell’arte e del mondo economico in genere.
Tale fragilità riflette la necessità di una continua problematizzazione senza che a questa corrisponda alcuna storicizzazione del dibattito, che pertanto rimane sempre irrisolto. Alla ricerca di certezze è però anche l’altra faccia dell’arte ovvero il suo mercato, evidente nella ritualità delle fiere d’arte.
Le fiere hanno cominciato a moltiplicarsi nei ’90 e negli ultimi anni, segnati dalla congiuntura economica negativa, tale tendenza non si è affatto arrestata come si potrebbe credere. È accaduto però che, mentre in Occidente si è assistito a una contrazione soprattutto dei piccoli eventi, a tutto vantaggio dei grandi appuntamenti storici e degli eventi nomadi, con vari appuntamenti programmati durante l’anno in diverse capitali, sono aumentate invece decisamente le fiere dei Paesi delle economie emergenti in cui la rete del mercato dell’arte è in via di costruzione. In appena un decennio dall’inizio del nuovo secolo, da un centinaio di fiere si è passati nel 2010 a toccare le 200, di cui circa un quarto localizzate fuori dall’asse Usa-Europa, tra Sudamerica, Est Europa, Medio Oriente e Asia.

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Le fiere nel mondo pre e post crisi economica, 2007-2011

Proprio dall’Asia viene un esempio tipico dell’incapacità di autodeterminazione e coerenza del sistema dell’arte globale. Dal 2 aprile scorso, giorno in cui è stato arrestato Ai Weiwei – artista attivista cinese nonché star assoluta dell’arte contemporanea -, si sono moltiplicate le iniziative di protesta contro il governo di Pechino. Ciò nonostante, ad Art HK, la fiera di Hong Kong acquisita dalla società che organizza l’edizione europea e statunitense di Art Basel, non vi sono state particolari defezioni o prese di posizioni da parte delle 260 gallerie, provenienti da 38 Paesi e tra le quali molti big gallery occidentali. “La politica non è affar nostro”, si è affrettato qualcuno a dichiarare. Di fatto, a prevalere sono le ragioni del libero mercato, ma anche l’ipocrisia di un sistema che in questi anni ha sfruttato abilmente il potenziale commerciale insito nella tensione tra il regime, gli intellettuali e gli artisti cinesi, e che ha tutto l’interesse di alimentare. Perché? Per costruirsi nuovi eroi.

Alfredo Sigolo

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #1

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