Vite parallele nell’America dell’Aids

Si è parlato molto recentemente di David Wojnarowicz e Mark Morrisroe. Per il primo, ha fatto rumore la censura bigotta di un’America assai teo-con; su Morrisroe, invece, si moltiplicano rassegne (come quell alla Smithsonian di Washington), volumi monografici e articoli. Proviamo ad approfondire le due vicende artistiche e biografiche, simili e complementari.

David Wojnarowicz (Red Bank, New Jersey, 1954-1992) e Mark Morrisroe (Balden, Massachusetts, 1959-1989) recentemente si sono trovati fianco a fianco nella rassegna Hide / Seek allestita dalla Smithsonian Gallery di Washington, centrata sulla ricognizione del discorso sul gender e sull’omoerotismo nell’arte americana.
Morrisroe era rappresentato da uno dei tanti autoritratti e da Fascination, una splendida polaroid della serie Sandwich Prints, che serve da chiave esplicativa per tutta l’opera dell’artista. Un ragazzo (che poi è Jack Pierson, anche lui esponente della Boston School) è steso in un letto e alza un braccio per proteggere un pappagallo dall’attenzione predatrice di due gatti. Lo studio compositivo, che rimanda agli equilibri di tinte pastello rococò e alle complesse geometrie e diagonali manieriste, s’innesta sul tranche de vie volendo mostrarsi più figlio dell’intuizione che del calcolo (si pensa immediatamente a un altro nome pesante della Boston School, Nan Goldin). Un senso di equilibrio precario e una delicatissima sensibilità estetizzante convivono con sottotesti sadomasochisti.

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David Wojnarowicz - Untitled (One day this kid) - 1990

Wojnarowicz, invece, era rappresentato da una selezione della sua opera d’esordio, Arthur Rimbaud in New York, una serie di fotografie che ritrae gli amici artisti e outcast muoversi attraverso la Grande Mela indossando una maschera del poeta voyant simbolista, e da alcuni autoritratti, fino a Face in dirt: l’immagine agghiacciante di un volto semisepolto, metafora dell’Aids che stava consumando l’artista e falcidiando anzitempo le menti migliori di una generazione.
Mancava, com’è noto, A fire in my belly, testamento video dell’artista e chien andalou del punk newyorchese: la sequenza che mostra un crocefisso cosparso di formiche ha attirato minacce di scomunica e, soprattutto, di taglio delle sovvenzioni sulla Smithsonian Institution, che ha preferito chinare il capo.

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Mark Morrisroe - Self-Portrait (to Brent) - 1982

Le (brevi) parabole esistenziali dei due artisti sono spesso tangenti, dall’infanzia provinciale in un contesto familiare problematico (Morrisroe era figlio di una prostituta e di padre ignoto, e amava raccontare di esser figlio dello strangolatore di Boston) alla fuga verso la metropoli e le zone allora fatiscenti della “Alphabet City” (la zona ora piena di loft e gallerie d’arte milionarie corrispondente all’East Village di Manhattan), guadagnandosi da vivere facendo marchette. Quindi la frequentazione del milieu artistico punk e post-punk: una new wave radicale che rifiutava la Pop Art di Andy Warhol, ormai pienamente integrato nell’establishment, e annoverava nomi come Robert Mapplethorpe, David Armstrong, Peter Hujar, Lydia Lunch e i già citati Goldin e Pierson (tutti amici o compagni di Morrisroe e Wojnarowicz) e Richard Kern, il regista del Cinema of Trangression nel cui film-manifesto The Manhattan Love Suicides Wojnarowicz recitò ironicamente la parte dello stalker di un artista affermato.

Poi vennero gli anni oscuri dell’Aids, che Wojnarowicz rappresentò attraverso il simbolo catartico ambivalente di San Sebastiano, il santo sagittato e guaritore delle pestilenze, e Morrisroe registrò fotografando la consunzione del proprio corpo, e la morte prematura di entrambi. Seguì un periodo di oblio dovuto al clima politico plumbeo, quasi un secondo maccartismo, e alla dispersione delle opere fino alla recente ribalta.
Se si è detto che il fascino delle opere di Morrisroe risiede nella convivenza di svariate ambiguità, la cifra di Wojnarowicz (che si rintraccia in tutti i media utilizzati, dal video alla fotografia, dal collage alla performance) è un’immediatezza comunicativa frontale, quasi pubblicitaria, e l’abilità di creare icone archetipiche anche quando il discorso sotteso è complesso e stratificato. Così molte opere sono famosissime, molto più del loro autore, e sono servite da repertorio iconografico per operazioni pop culture: dalle labbra cucite da un filo rosso di A fire in my belly che si ritrovano in molte pubblicità-progresso al suicidio dei bisonti come metafora dell’Aids ripreso da Anton Corbjin nel videoclip di One degli U2.

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David Wojnarowicz - Untitled (Falling Buffalo) - 1988-89

In questo senso furono complementari: se Wojnarowicz fu più attivista ed engagé, l’ampio corpus (più di 2mila fotografie e polaroid) di Morrisroe pare coincidere con il corpo, in una sorta di diario dove si ripetono autoritratti, ritratti di amici, interni newyorchesi… Ugualmente invece sono fra i testimoni più attendibili e affascinanti di una delle ultime e più vitali scene autenticamente underground, autenticamente metropolitane e autenticamente indipendenti dell’arte contemporanea.

Alessandro Ronchi


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Alessandro Ronchi

Alessandro Ronchi (Monza, 1982) è critico d’arte e giornalista culturale. Si interessa specialmente di arte dalle origini alla contemporaneità, iconografia, cinema, letteratura, musica e pop culture. Ha diretto il mensile Leitmotiv e collabora con testate giornalistiche, website e gallerie. Tiene…

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