Noi credevamo?

Centocinquanta, tutta l’Italia canta. Ma già l’anno scorso si era levata qualche nota fuori dal coro. No, non stiamo parlando delle solite “camicie verdi”, bensì del film “meridionalista” di Mario Martone. Partito con difficoltà, e ora - meritatamente - sugli scudi. Una storia italiana.

È stato eletto il film del Centocinquantenario. Poi sono arrivate le 13 nomination ai David di Donatello. Strano destino, per una pellicola inizialmente distribuita in una manciata di copie (e che invece resiste da mesi nelle sale). Strano ma vero, e purtroppo ovvio, in un Paese abituato ai riconoscimenti tardivi, disinvolto maestro di oblio quando si tratta di fare i conti con la propria storia. Già, la Storia. Annessione, conquista? Cosa fu l’Unità, dalla parte dei vinti?
Pellicola meridionalista, si tuonò ancor prima che il kolossal di Mario Martone, Noi credevamo, arrivasse alla Mostra del Cinema di Venezia, dimenticando il flop nordista del Barbarossa di Martinelli, girato con soldi dello Stato.

A parte che quel pronome “noi” non è stato messo lì a caso, ma qui a fare la differenza è la qualità: le scene di Emita Frigato e i costumi di Ursula Patzak, ma soprattutto la fotografia di Renato Berta: tutto un sollazzo di citazioni per gli amanti dell’arte; le musiche di Verdi, Rossini e Bellini; il cast “garantito” da Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, il “divo” Toni Servillo e, miracolo, un’attrice non plastificata che sembra uscita da un quadro di Hayez (Francesca Inaudi), oltre a qualche faccia televisiva (Luca Zingaretti, Luca Barbareschi, Guido Caprino).
Intreccio troppo complesso, si obiettò (suvvia, un po’ di concentrazione!), e quadro storico dato per scontato (recuperate i libri di scuola!), per giunta senza i santini tramandati dai vecchi sussidiari delle elementari: il re gentiluomo, il tessitore Cavour. E non ne escono tanto bene pure il “terrorista” Mazzini o l’ambiguo Crispi; “Peppino” Garibaldi si salva, ma è una figura distante, e in controluce.

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Valerio Binasco / Angelo mostra la “sua testa” ghigliottinata

E poi, si sbuffò, troppo lungo: beh, l’arco di tempo è 1828-1862, ringraziate che duri solo 165’: se dietro la macchina da presa ci fosse stato James Cameron in meno di 4 ore non ne sareste venuti fuori.
Una costruzione abusiva! Si rise a un certo punto, di fronte a uno degli anacronismi più evidenti. Senza intuire che potessero essere voluti, e che quei ferri sputati dal cemento armato a squartare l’idillio potessero prefigurare lo scempio del Sud (e crudelmente ricorda l’assassinio di Angelo Vassallo, il sindaco ecologista di Pollica, tra i set usati da Martone, trucidato poche ore prima della presentazione in Laguna).
Una meglio gioventù in salsa risorgimentale, si disse infine. Certo. Erano giovani e forti, e son morti. Molti senza veder realizzata la Patria, alcuni senza vederla realizzata come sognavano.

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Toni Servillo / Giuseppe Mazzini

Perché quell’Unità d’Italia non fu quella che loro credevano.
Ed è questo costante sentimento di disillusione ad aleggiare nel romanzo di Anna Banti, “ceppo” originario del film, poi diramato dagli sceneggiatori (lo stesso regista e Giancarlo De Cataldo) in tre filoni narrativi.
Ma torniamo all’autrice: Lucia Lopresti, moglie di Roberto Longhi, nota soprattutto per il suo capolavoro Artemisia. Scrittrice rara, pressoché introvabile. Asciutta, scabra, “virile”. Linguisticamente preziosa ma mai compiacente, capace di evocare scene e atmosfere con poche, magistrali pennellate (quando si dice la familiarità con l’arte).
Le sue “care memorie” – il Domenico protagonista del libro e del film è suo nonno – si dipanano irte in questo volume (fortunatamente ristampato da Mondadori), ascrivibile a quel filone letterario che, subito dopo la proclamazione del Regno, cominciò a smontarne il mito, con smottamenti arrivati fino ai giorni nostri: dalla novella Libertà di Verga al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, passando per I viceré di De Roberto e il misconosciuto Signora Ava di Francesco Jovine.

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Martone sul set “arringa” i garibaldini

Il film prende le mosse dal romanzo ma, si è detto, se ne discosta in modo significativo, mescolando, per dirla con Manzoni, “storia e invenzione”. Entrambi, in ogni caso, si pongono senza strumentali revisionismi e nostalgie borboniche. Dalla parte dei “conquistati”, sì, ma non troppo. Senza piagnistei e vittimismi, quanto con la sardonica constatazione che tutto è andato come doveva andare e come andrà sempre. Italiani che italiani non erano ancora, già pronti a salire sul carro dei vincitori e a cambiare casacca in un lampo, a qualsiasi altezza dello Stivale.
Pessimismo? No, realismo. Così la “fede” mazziniana di Domenico, rivoluzionario duro e puro e calabrese capatosta, che sopporta il carcere in gioventù e la miseria in vecchiaia pur di non tradire quegli ideali che hanno tradito lui, si traduce in una radicale delusione, appena venata di commozione senile.

E su questo sentimento Martone, letteralmente, ci mette il cappello: le coppole che attorniano l’infido Crispi, tornato nella natia Sicilia con una bomba dell’attentato a Napoleone III; o, nella bellissima sequenza finale, le tube ordinatamente disposte al Parlamento di Torino. Lì, altere e immobili. Inamovibili. A ricordarci che tutto era cambiato perché nulla cambiasse.

Anita Pepe

dal 10 marzo al 15 maggio 2011
Noi credevamo.
Il Risorgimento secondo Martone
Museo Nazionale del Cinema –
Mole Antonelliana
Via Montebello, 20 – 10124 Torino

Orari: da
martedì a venerdì e domenica ore 9-20; sabato ore 9-23
Ingresso:
intero € 7; ridotto € 5
Info: tel. +39 0118138511; [email protected]; www.museocinema.it

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Anita Pepe

Anita Pepe

Insegnante e giornalista pubblicista, Anita Pepe è nata a Torre del Greco (Na). Ha pubblicato il suo primo articolo nel 1990. La laurea in Lettere presso l’Università di Napoli “Federico II” l’ha indirizzata verso una formazione prevalentemente storica; si è…

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