Sesso, droga, Instagram e altre dipendenze. Nan Goldin a Milano

La Triennale di Milano ospita il debutto italiano della celebre Ballad di Nan Goldin. Un work in progress che affonda le radici nella storia privata e intima dell’artista americana.

Dopo la recente presentazione al MoMA di New York lo scorso inverno, Nan Goldin (Washington, 1953) porta per la prima volta in Italia, alla Triennale di Milano, The Ballad of Sexual Dependency, diario-testimonianza della sua vita, ormai riconosciuto emblema di una generazione e capostipite di un nuovo modo di fare fotografia.
Lavoro costantemente in progress, la Ballad come la vediamo oggi è uno slideshow di circa quaranta minuti di proiezione in cui si avvicendano più di settecento scatti accompagnati da una colonna sonora potente che ne fa un film con un andamento narrativo.
Una versione “ridotta” rispetto alla magmatica proiezione originale, nata dal felice incontro col curatore François Hébel, il primo ad averla introdotta nel circuito espositivo europeo, al Festival della Fotografia di Arles nel 1986.
Colpisce, di questa presentazione italiana, l’età media del pubblico: una platea giovane, sulla trentina, che per più di quaranta minuti resta assiepata, ammutolita e compresa nel ritmo delle immagini. Stupefacente, se si pensa al bombardamento visivo cui si è sottoposti nella cultura dell’immagine contemporanea. Incredibile, se si pensa che le immagini in questione risalgono a circa trent’anni fa.

Nan Goldin, Skeletons coupling, New York City, 1983 © Nan Goldin

Nan Goldin, Skeletons coupling, New York City, 1983 © Nan Goldin

LIBERTÀ COME STILE DI VITA

La storia personale di Nan Goldin è nota: la ribellione alle convenzioni soffocanti della provincia americana, il trauma irreversibile del suicidio della sorella Barbara ancora adolescente, il trasferimento nel downtown di New York sul finire degli Anni Settanta e l’inizio di una vita fatta di eccessi e dipendenze, di cui la fotografia diventa dura testimonianza.
La Goldin, 26enne appena arrivata a New York, si riconosce nella morale anticonformista e affamata di vita che fermenta nei club underground della città, frequenta il mondo sotterraneo di punk, omosessuali, drag queen e aspiranti artisti con cui stabilisce legami profondi e che diventa “la sua famiglia”.
Con loro condivide la rivendicazione del diritto alla libertà come stile di vita e un’assenza di regole che non si ferma di fronte a nessun eccesso: divertimento sfrenato, sesso, droga, omosessualità, la tragedia dell’AIDS fino alla morte che, implacabile, torna a privarla dei suoi affetti più cari.
Goldin continua a fotografare: i sorrisi sfatti, le braccia segnate dagli aghi, le stanze in affitto, i lividi, gli sguardi allo specchio. “Pensavo che non avrei perduto nessuno” ‒ dice lei stessa ‒ “se solo lo avessi fotografato abbastanza. Fotografare diventa per Goldin la vera dipendenza e la sola salvezza: diventa la possibilità di salvare i suoi legami affettivi, la sua stessa vita, dalla mancanza e dalla morte.
Un’autenticità che non conosce convenzioni neanche dal punto di vista formale: quella della Goldin è una fotografia “scorretta”, le immagini sono in presa diretta, immediate, scomposte, spesso in interni illuminate da un flash quasi violento ‒ come a dire, la verità è totalmente esposta, sovraesposta ‒ perché è solo nell’autenticità delle emozioni che si rivela la vita e la vera bellezza.
Non mi importava la bella fotografia” ‒ dice ‒ “mi importava la completa onestà.

Nan Goldin, Vivienne in the green dress, New York City, 1980 © Nan Goldin

Nan Goldin, Vivienne in the green dress, New York City, 1980 © Nan Goldin

REALTÀ AUTENTICA

A chi le chiede di fotografare con lo stesso sguardo sconosciuti o set per fini pubblicitari o commerciali si nega e spiega: “Molte persone sembrano pensare che larte o la fotografia riguardino il modo in cui le cose appaiono, la superficie delle cose. Non è così per me. Centra con i legami e i sentimenti. (…) non ha nulla a che fare con lo stile o con il look ma con lossessione emotiva, lempatia.
Da qui la potenza espressiva e poetica del suo lavoro che non sta nell’esibizione della trasgressione, ma nel bisogno di sottrarre al buio l’essenza più intima dei suoi legami, restituirne la forza e insieme la profonda fragilità.
Sono passati quaranta minuti e più di trent’anni: mentre scorrono i titoli di coda, c’è un silenzio denso, carico di intensità. Sono anni in cui è esploso il digitale, il mondo dei profili e dei social, delle identità appiattite dai filtri patinati di Instagram. Un consumo di immagini rutilante e continuo in cui sono immerse e forgiate le nostre vite che la Ballad spazza via in un solo gesto, restituendo al nostro sguardo la forza e il valore delle immagini nella loro reale autenticità.

Emilia Jacobacci

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Emilia Jacobacci

Emilia Jacobacci

Emilia Jacobacci è una storica dell’arte, laureata alla Sapienza di Roma con una tesi sul progetto del MAXXI. Si è poi specializzata in Management dei beni culturali alla Scuola Normale di Pisa e a Milano in Comunicazione multimediale. Scrive di…

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