Talenti fotografici. Intervista a Giovanni Hänninen

Il cognome Hänninen arriva a Giovanni da quello finlandese della madre. Di formazione è ingegnere aerospaziale e per parecchi anni è stato docente di Analisi matematica e Geometria al Politecnico di Milano, dove insegna anche Fotografia per l’Architettura.

Per Giovanni Hänninen (Helsinki, 1976) la fotografia è sempre stata un’esigenza pratica, che faceva da contraltare agli studi scientifici prettamente teorici. Una decina di anni fa ha mostrato il suo portfolio ai GRIN – Gruppo Redattori Iconografici Nazionale ed è stato notato da Giovanna Calvenzi, che si è interessata al suo lavoro. Nel 2007 è andato a Lampedusa al CPT e il suo cammino esistenziale e professionale ha preso una svolta. Il lavoro che realizza in quel luogo di transito viene pubblicato sulla rivista Rolling Stone.

Nel 2010 partecipi a un bando di concorso con Massimo Bricocoli e Paola Savoldi del Politecnico di Milano e realizzi il lavoro Mix City.
Il cuore del lavoro sono tre grandi progetti di trasformazione urbana, in tre grandi città europee, tre diversi modi di riconvertire aree dismesse o zone portuali in nuovi quartieri: Bicocca a Milano, Island Brygge a Copenhagen, Hafen City ad Amburgo. Non zone direzionali o quartieri dormitorio, ma vere e proprie città nella città. Ho mostrato il lavoro ad Assab One e in quell’occasione ho conosciuto Gabriele Basilico, che ha apprezzato il mio lavoro e mi ha coinvolto in un progetto a Casa Testori, in cui un maestro presentava un giovane fotografo.

Cosa hai presentato in quella mostra?
Per quell’occasione ho iniziato a lavorare al progetto cittàinattesa sull’abbandonato a Milano, al quale ho continuato a lavorare. Allora erano 27, ora sono 56 casi. Tra questi ci sono il piccolo santuario di Roserio, la Caproni in via Mecenate, la Torre Galfa, l’Istituto Rizzoli, il Teatro Lirico. Attraverso queste immagini si va ben oltre a una semplice foto di architettura: si può comprendere una storia politica, sociale.

Giovanni Hänninen, Roland Ultra

Giovanni Hänninen, Roland Ultra

Guardando certe immagini di questo ciclo, mi viene in mente il “terzo paesaggio” di Gilles Clément.
Infatti. Con tutte le implicazioni biologiche che esso comporta. Durante il lavoro con Alberto Amoretti, sceneggiatore e scrittore, abbiamo fatto un’approfondita ricerca storica dei luoghi e abbiamo dato vita a una serie di didascalie lunghe, che li raccontano. Proprio con questo progetto ho capito quale doveva essere il mio modo di lavorare, che ha una forte componente progettuale. Ogni immagine è frutto di una ricerca a priori. 

Questo era anche il metodo di Basilico.
Esatto. Anche per il progetto Milano-Bergamo 49 km di autostrada del 2015 l’ho utilizzato. Mi interessa la definizione del punto di vista. Non devo raccontare quel percorso in tutte le sue sfaccettature. È una sezione spaziale ma anche mentale, di concetto, proprio come nelle Sezioni del paesaggio italiano di Basilico. Il mio è un progetto fatto durante l’anno di Expo, finanziato dalla Triennale. Eravamo guidati da Andrea Gritti, il soggetto era l’autostrada. Mi sono imposto di non raccontarla in maniera documentaria. Ho costruito il progetto sulle mappe satellitari. A seconda della distanza di quel tratto di autostrada, la gente vive diversamente. Mi interessava raccontare quello che c’è oltre questa arteria, per molti versi disumanizzante. 

È come essere in gabbia.
In un tunnel. L’esperienza dell’autostrada è, appunto, legata a quel tunnel dal quale non si vede cosa c’è fuori. È una condizione di quella particolare autostrada, non sono tutte così.

Il tuo essere un matematico quanto ha influenzato la tua fotografia?
È un aspetto fondamentale. Spesso la gente mi chiede perché ho cambiato mestiere. E io rispondo regolarmente che non ho cambiato mestiere: faccio una cosa molto simile. Il mio è un lavoro fotografico fortemente teorico. Prima mi occupavo di creare dei modelli matematici che descrivessero la realtà, adesso mi occupo di creare dei modelli che descrivano la realtà con uno strumento differente.

Giovanni Hänninen, Senegal

Giovanni Hänninen, Senegal

Quando sono venuta nel tuo studio la prima volta, mi hai mostrato un lavoro che hai realizzato a San Donato Milanese.
Si tratta di un altro esempio di fotografia calata nel territorio. Il tentativo, riuscito a mio parere, era quello di fare una ricerca che riuscisse a rendere conto anche delle politiche abitative della città, di come stanno cambiando i modi dell’abitare. Si tratta di un’analisi scientifica, urbanistica, sociologica. Il mio punto di vista è sempre elevato, mi pongo in alto per riuscire a osservare meglio, a mantenere la giusta distanza.

So che stai realizzando un lavoro sul Senegal con la Josef and Anni Albers Foundation, lavoro che mostrerai prossimamente in un’importante galleria straniera.
Sono andato con una breve residenza d’artista a Thread, un centro culturale progettato da Toshiko Mori, che la fondazione ha nel villaggio di Sinthian. È una costruzione che sorge nel nulla, come se fosse la decostruzione di una capanna. Sono andato con un gruppo di lavoro composto da Amoretti e dal mio assistente e ho fatto delle foto, girato dei video.

In cosa consiste il progetto?
Il mio progetto è su quel luogo, su quella dimensione, sui rapporti con la gente, con i ragazzi, che hanno un grande entusiasmo vitale, anche se vivono come mille anni fa. Proprio da quei luoghi alcune persone partono per intraprendere i terribili “viaggi della speranza”. La maggioranza non arriverà a destinazione. In quei luoghi ho visto delle scritte, dei dettagli che avevo visto a Lampedusa, come se le persone volessero portarsi dietro un pezzo della propria vita. La loro ricchezza è costituita da un piccolo pannello solare. Tutto il paese, nei periodi di siccità, vive di un orticello che in Occidente basterebbe sì e no a una famiglia. Vivono di piccole cose, con molto poco. In dicembre devo tornarci, vorrei fare dei ritratti nello stile di August Sander, partendo dal ruolo che le diverse persone hanno nella società. 

Mi pare di trovare un legame tra questo lavoro e quello che hai fatto, nel 2012, per seguire la macchina da stampa Roland Ultra da Milano a Manmad, in India.
Era un viaggio al seguito della grande macchina che stava ad Assab One. La macchina è stata venduta a un dealer indiano a due condizioni: doveva tornare a funzionare e qualcuno avrebbe potuto seguire e documentare il lungo viaggio, e quel qualcuno Elena Quarestani, l’ex proprietaria della Roland, ha deciso che fossi io. Così ho scoperto un mondo altrettanto incredibile di quello che sto iniziando a vedere in Senegal: un mondo che riesce a dare un senso diverso a quello che faccio quotidianamente.

– Angela Madesani
(ha collaborato Silvia Gazzola)

www.hanninen.it

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37

Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

Scopri di più