Tra paesaggio e memoria. Intervista a Marco Dapino

Dal Golden Gate di San Francisco alla sua casa nel Monferrato sino ai landscape statunitensi e alla superficie urbana di Milano al crepuscolo. Sono questi alcuni dei soggetti scelti da Marco Dapino, fotografo che si racconta in questa intervista.

Marco Dapino (1981) si è laureato al Politecnico di Milano, città in cui vive. Ha quindi studiato fotografia al CFP Bauer. Ha ricevuto numerosi premi: nel 2008 il Riccardo Pezza, nel 2011 quello dedicato a Carlo Scarpa. Ha esposto alla Triennale, al MuFoCo di Cinisello Balsamo, al CISA Palladio di Vicenza, al Museo Fattori di Livorno. Collabora con alcune gallerie in Italia e all’estero.

Un tuo lavoro del 2008 è intitolato Golden Suicide: un modo curioso di raccontare un dramma esistenziale come il suicidio. Mi pare mi avessi detto che quelle immagini si riferiscono a un ponte da dove molte persone si lanciano nel vuoto.
Sì, esatto, è il celebre Golden Gate di San Francisco, una delle strutture ingegneristiche più importanti e famose al mondo. La sequenza di immagini è stata scattata proprio lì nel 2008.
Si dà il caso che, in uno dei luoghi più fotografati e famosi degli Stati Uniti, si siano contati più di 1.300 suicidi dalla sua apertura, nel 1937, a oggi. L’altezza di più di settanta metri dal livello del mare e le violenti correnti oceaniche fanno di questo posto il teatro ideale per chi vuole farla finita. Grazie alla sua posizione geografica, assolutamente unica, il Golden Gate subisce continui cambi metereologici, diventando uno dei luoghi più suggestivi dove sia mai stato. Si respira un senso di immobilità e pace, pur essendo avvolti dal rumore dei tiranti, che si mischia con quello del mare e del flusso continuo di macchine in transito.

Marco Dapino, No way out. Las Vegas, 2008

Marco Dapino, No way out. Las Vegas, 2008

Nello stesso anno hai iniziato a lavorare ad Anthropic Landscapes, un lavoro per certi versi ghirriano, in cui un paesaggio, virtuale, di una mappa geografica si pone in relazione con il paesaggio reale.
Anthropic Landscapes (2008-15) è uno dei lavori che porto avanti da più tempo. Ho iniziato nei parchi nazionali americani per poi proseguire tra le Alpi svizzere e i siti archeologici italiani, e infine son finito anche nei giardini botanici a Londra. È un lavoro basato su un approccio seriale, tramite il quale si esplora il rapporto tra il luogo in sé e la sua codificazione visiva data da cartelli e didascalie. Il tutto è costruito su uno schema fisso e metodico e su una rigorosa verticalità dell’inquadratura, che cerca di farti concentrare su una visione centrale. Anthropic Landscapes analizza la percezione stessa del paesaggio e invita a pensare ai ripetuti tentativi dell’uomo di capire l’ambiente nel quale vive.

Dal mondo al tuo mondo: Limite è un lavoro dedicato a una casa della tua famiglia nel Monferrato, a Cassine. Un luogo della memoria. Che ruolo ha quest’ultima nella tua ricerca?
Ogni volta che ho affrontato il tema della memoria nelle mie ricerche, ero in questa casa. In questo luogo ho passato molto tempo in diversi periodi della mia vita. Il legame con essa è inevitabilmente molto forte e, da quando fotografo, ho lavorato più volte dentro queste mura, attraversato varie fasi. L’ho usata un po’ come un laboratorio espressivo arrivando nel 2013 a quest’ultima serie, chiamata Limite, appunto, dove cerco di raccontare come a volte crediamo di conoscere i luoghi in cui viviamo e siamo cresciuti, dandoli per scontati. In realtà, molto spesso non li conosciamo affatto, specialmente se questi hanno una storia di lungo corso. Il limite creato dall’inquadratura aiuta a esprimere la parziale incomprensione che si ha di uno spazio apparentemente familiare, un confine visibile e tangibile che finisce per risultare sempre più astratto dal suo contesto.

Marco Dapino, What's wrong. Arizona, 2015

Marco Dapino, What’s wrong. Arizona, 2015

Il lavoro che hai recentemente mostrato alla RB Gallery, Ore di città – dal titolo di una serie di racconti dello scrittore Delio Tessa –, è un racconto sulla città nella quale vivi, Milano. Sono immagini realizzate in una particolare ora del giorno, il crepuscolo. Vogliamo parlarne?
Ho scelto di ritrarre Milano, la città dove vivo e sono cresciuto, cercando di evitare le solite etichette e luoghi comuni, utilizzando un momento unico durante il corso della giornata. Un momento che dura solo pochi minuti: il crepuscolo. In quegli attimi dopo il calare del sole, la luce naturale si mescola con quella artificiale e il paesaggio urbano subisce una trasformazione continua a livello cromatico. L’aspetto mutevole e imprevedibile che si manifesta fuori e dentro la macchina fotografica, durante questo periodo, è la vera essenza del lavoro. Il risultato che spero di ottenere è uno sguardo atipico sulla mia città che, in un primo momento, suscita nello spettatore stupore e spaesamento ma, in un secondo, immediato riconoscimento del territorio.

A partire dall’estate scorsa hai iniziato un lavoro di paesaggio sugli Stati Uniti. In No way out pare che lo spazio, il colore, giochino un ruolo preponderante. In queste immagini quanto pesa la tradizione fotografica dei maestri della fotografia americana, di William Eggleston per esempio?
Gli Stati Uniti, a mio avviso, sono un luogo fondamentale da esplorare per chi lavora sul territorio antropizzato. La storia è piena di autori di riferimento come Eggleston, Shore, Robert Adams e altri. Mi sono formato con questi maestri e non solo. Inevitabilmente giocano un ruolo basilare nell’approccio che ho verso il paesaggio. Detto questo, sono stato diverse volte negli Stati Uniti e nel corso degli anni sento che il mio sguardo verso questa terra è cambiato dalla prima volta che ci sono andato con una camera (No way out), sicuramente è maturato. Il colore ovviamente è sempre un elemento indispensabile e lo spazio, mai come in questo luogo, si fa concreto schiacciandoti tra gli elementi. Come hai accennato, sto lavorando a un progetto che vorrebbe riflettere sul territorio americano come luogo iperreale, dove tutto sembra essere costruito in funzione di uno schermo fotografico o cinematografico. Sto lavorando in pellicola ma con un approccio in un certo senso digitale. La cosa è in via di sviluppo e presto sarò di nuovo lì per lavorarci.

Angela Madesani

www.marcodapino.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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