Tra celebrità e solitudine. Rodin secondo Goldin

Museo Santa Caterina, Treviso ‒ fino al 3 giugno 2018. Molte opere, tutte di Rodin – salvo poche e funzionali “intrusioni” di Camille Claudel, di Monet e di Munch – ripercorrono la carriera intensa, talvolta complessa e non esente da progetti rifiutati, dell’artista francese e della sua profonda e radicata idea di scultura.

Tre aree, ciascuna incentrata su altrettanti capisaldi della produzione di Auguste Rodin (Parigi, 1840 ‒ Meudon, 1917): la Porta dell’Inferno, i Borghesi di Calais e la statua di Balzac. All’interno di questa macro suddivisione, il percorso squisitamente cronologico si conclude nella nuova Sala ipogea Barbisan, dove l’allestimento, giocato in generale su un’atmosfera scura con luci dirette a enfatizzare i contrasti dei bronzi e dei marmi, è decisamente suggestivo.

DA MICHELANGELO A DANTE

Il Musée Rodin ha scelto di prestare per l’esposizione trevigiana circa cinquanta lavori ‒ molti di grande dimensioni ‒ tra gessi, marmi, bronzi (fusi lui vivente o in epoche più recenti), oltre a una ventina di disegni: un ampio e significativo corpus che offre uno spaccato rappresentativo di tutta la produzione dell’artista. Il titolo suggerisce subito l’intersecarsi della sua vicenda con quelle dei contemporanei impressionisti, come evidenzia in particolare un dipinto protagonista della mostra organizzata a Parigi nel 1889, dove i tanti quadri di Monet erano accostati alle opere dello scultore. E, come i pittori, anche Rodin, nonostante la fama raggiunta e le numerose committenze pubbliche, ebbe non pochi problemi a far accettare le sue figure troppo “veriste”, come la splendida Età del bronzo, per la quale fu accusato di aver riprodotto un calco del modello. Ma, oltre a sottolineare il forte impatto sulla formazione del giovane artista di un viaggio a Firenze nel 1876 che gli permise di scoprire Michelangelo e il non finito, il fulcro della prima sezione è costituito dalla Porta dell’Inferno, di cui sono esposti il terzo bozzetto e alcune singole figure: un’impresa titanica che divenne poi fonte di immagini autonome, tra cui il Pensatore  e il Bacio, esposte alla fine del percorso di visita a testimoniare una continua rielaborazione delle sculture da parte di Rodin e la loro successiva trasposizione dal gesso al marmo o al bronzo.

Auguste Rodin, Testa monumentale di Pierre de Wissant (I borghesi di Calais), 1909. Parigi, musée Rodin © Musée Rodin, photo Christian Baraja

Auguste Rodin, Testa monumentale di Pierre de Wissant (I borghesi di Calais), 1909. Parigi, musée Rodin © Musée Rodin, photo Christian Baraja

LE IMPRESE MONUMENTALI

La seconda area si concentra sul monumento ai Borghesi di Calais, anch’esso documentato dal primo bozzetto, da alcuni piccoli bronzi della seconda versione e dalla straordinaria Testa monumentale di Pierre de Wissant (nella fusione del 1909).
Senza voler ripercorrere la sequenza delle opere – per molte delle quali si potrebbe raccontare una storia ricca di aneddoti e di particolari –, merita un approfondimento il Balzac che, sotto forma di studio finale, si staglia davanti alla riproduzione della fotografia scattata da Edward Steichen nel giardino dell’atelier di Rodin a Meudon: l’opera fu rifiutata dalla Societé des Gens de Lettres di Parigi e un gruppo di artisti sottoscrissero una raccolta fondi per acquistarla, ma Rodin decise di tenerla per sé: “Questa statua farà il suo cammino. È il risultato di tutta la mia vita. Il punto più alto della mia visione”, dichiarò, rifugiandosi nel suo studio per riprendere in solitudine il lavoro troppo disturbato dalla querelle. Incompresa – “non è più realtà ma neanche astrazione, e da questa scaturisce la scultura moderna”, afferma Marco Goldin – ancora oggi è simbolo di una svolta nella storia della scultura che, nello scorcio dell’Ottocento, va alla pari con quella di tutte le arti.

Marta Santacatterina

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Marta Santacatterina

Marta Santacatterina

Giornalista pubblicista e dottore di ricerca in Storia dell'arte, collabora con varie testate dei settori arte e food, ricoprendo anche mansioni di caporedattrice. Scrive per “Artribune” fin dalla prima uscita della rivista, nel 2011. Lavora tanto, troppo, eppure trova sempre…

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