Monumentale e microscopico. Gianfranco Baruchello a Rovereto

Mart, Rovereto ‒ fino al 16 settembre 2018. Trecento opere per la più ampia mostra sul grande e anticonvenzionale artista toscano. Un flusso di visioni e parole che travolge e rapisce. Un linguaggio indipendente, radicale e anarchico, alternativo a ogni condizionamento.

L’antologica al Mart su Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924) segna un punto fermo nella ricerca attorno a un artista anticonvenzionale, nobilmente marginale ma fondamentale nella storia creativa degli ultimi sessant’anni. La mostra, la più ampia finora organizzata sull’autore con trecento opere, sistematizza l’opera di Baruchello senza musealizzarla, riconoscendone l’assoluta anticonvenzionalità.
L’allestimento è monumentale, con ampie porzioni di spazio libero. Eppure tutto si svolge su dimensioni ridotte, anche nel caso delle opere più estese. Il flusso di coscienza che si dispiega all’interno dei dipinti, dei disegni e delle opere tridimensionali è inafferrabile nel suo insieme. L’occhio deve fare i conti con distanze ravvicinate e mettere in atto un atteggiamento sinestetico, che coordini visione e lettura.

Gianfranco Baruchello, La presqu'île intérieure, 1963. Fondazione Baruchello, Roma. Photo Ezio Gosti

Gianfranco Baruchello, La presqu’île intérieure, 1963. Fondazione Baruchello, Roma. Photo Ezio Gosti

UN RAZIONALE TRIP PSICHEDELICO

Il prologo della mostra accoglie lo spettatore nell’atrio: i primi disegni fanno da sfondo al Giardino di piante velenose, primo esempio dell’arguta ambiguità dell’opera di Baruchello. All’interno delle sale, due interventi installativi si affiancano a tre tele dal respiro maestosamente pittorico, per quanto enormemente anticonvenzionale.
E poi ecco la sala che racchiude duecento disegni dagli Anni Cinquanta a oggi, molti mai esposti. Percorrere tutte le bacheche è una sorta di trip psichedelico ma allo stesso tempo iperrazionale, un vortice di stimoli, elementi perturbanti, raffinata levità e invenzioni formali.
Nelle ampie sale successive, senza gerarchie né preoccupazioni di ordine cronologico, si susseguono dipinti, teche, assemblaggi, fino agli importanti passaggi nel campo del film d’artista.

Gianfranco Baruchello, Pioggia e lacrime delle 18.50 del 15 giugno 1966, 1966. Collezione privata. Photo Ezio Gosti

Gianfranco Baruchello, Pioggia e lacrime delle 18.50 del 15 giugno 1966, 1966. Collezione privata. Photo Ezio Gosti

UN ALFABETO STOICO

Impossibile entrare nel dettaglio dell’immensa quantità di spunti. Quello di Baruchello è un alfabeto autarchico, stoico ed “eroico”, alternativo al linguaggio inesausto ma monocorde della propaganda di ogni tipo. Sembra di poter seguire un filo logico, ma ci si trova abbandonati a un flusso di visioni e informazioni. Come in una mappatura enciclopedica dell’immaginario sociale, con violenza e pulsioni sessuali come costanti sottintesi.
In un certo senso, ogni opera corrisponde alla mente di un individuo, a una scatola cranica in sé conchiusa ma non indipendente da tutte le altre e tanto meno dalle strutture di potere. Sembra confermarlo il riferimento alla psicanalisi dell’installazione inedita Le moi fragile, in cui a un lettino da analista si affiancano riferimenti alla cinematografia e desolati oggetti quotidiani un po’ beckettiani.
E ancora, ecco le opere di aperta denuncia e testimonianza politica; un altro inedito, la videoinstallazione sul concetto di archivio; le opere enciclopediche e quelle apparentemente lievi come i motti di spirito in forma di ready made. Un’opera coltissima, in cui ci si deve immergere. E da cui è difficile liberarsi.

Stefano Castelli

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Castelli

Stefano Castelli

Stefano Castelli (nato a Milano nel 1979, dove vive e lavora) è critico d'arte, curatore indipendente e giornalista. Laureato in Scienze politiche con una tesi su Andy Warhol, adotta nei confronti dell'arte un approccio antiformalista che coniuga estetica ed etica.…

Scopri di più