L’ambiguità dell’hamburger

Da Duchamp a Warhol, da Oldenburg a Tom Friedman, sono tanti gli artisti che hanno scelto l’hamburger come soggetto delle loro opere. Carlo e Aldo Spinelli analizzano il fenomeno, con un occhio al passato e l’altro rivolto al futuro.

In sostanza non è altro che una polpetta di carne trita. Anche se si potrebbe sottilizzare, sostenendo che la polpetta ha un aspetto che tende allo sferico mentre l’hamburger è appiattito, decisamente schiacciato ai poli, quasi a voler assomigliare a una più sottile e compatta bistecca, caratterizzata per di più da un’artificiosa forma circolare. Allo stesso tempo, a dimostrazione dell’estrema importanza del rapporto tra forma e funzione, l’hamburger si adegua morfologicamente alle due fette di pane che lo contengono, per prestarsi più comodamente a essere addentato.
Cosa che non può accadere con gli hamburger presentati come scultura in gallerie d’arte e musei. Infatti, non solo non sono commestibili ma si caratterizzano soprattutto per le loro dimensioni mastodontiche: il Floor Burger di Claes Oldenburg, realizzato con tela, gommapiuma e cartone nel 1962, misura 213,4 centimetri di diametro per l’altezza di 1 metro e 32. Dopo l’esposizione alla Galleria Sidney Janis di New York fu acquisito da un museo canadese, l’Art Gallery of Ontario di Toronto. La poco entusiastica reazione di un gruppo di studenti prese forma in una altrettanto gigantesca bottiglia di ketchup, di plastica gonfiabile e posta all’ingresso del museo con l’intenzione di farne una donazione, manifestando intenti esplicitamente polemici nei confronti dell’acquisto del capolavoro della Pop Art, una tra le prime sculture morbide di Oldenburg. Nello stesso anno, lo stesso artista ha realizzato anche una coppia di cheeseburger, questa volta in tela sagomata e dipinta a smalto, ma dalle dimensioni molto più contenute, quasi a grandezza naturale: 17,8 x 37,5 x 21,8 centimetri.

L’HAMBURGER SECONDO WARHOL

Parecchi anni dopo (nel 1985), Andy Warhol ha ripreso il tema del medaglione di carne da fast food per adattarlo alla sua poetica dell’immagine di oggetti quotidiani, portati a diventare icone del consumismo, oggetti elevati a soggetti ripetuti a oltranza sul quadro fino a trasformare la loro quantità in qualità. Ecco dunque il Double Hamburger, dove sulla grandissima tela (295 x 615 centimetri) la forma approssimata del panino con i suoi colori piatti e innaturali è ridotta ai minimi termini dell’essenzialità, ellissi sovrapposte che quasi tendono ad assomigliare a un disco volante o a un biscotto. Non a caso, alla domanda “Che cosa ami mangiare?”, Warhol rispondeva: “Solo cibo semplice. Semplice cibo americano”. Dalle parole ai fatti: nel 1981 l’artista è stato il protagonista di un video in cui, per circa quattro minuti e mezzo, non fa altro che aprire un sacchetto, estrarre un hamburger, versare sulla carta un poco di ketchup in cui intingere il panino e poi gustarselo in tranquillità. Alla fine, dopo aver accuratamente raccolto un pezzetto di pane avanzato e il tovagliolo di carta nel sacchetto, segue una lunga pausa in silenzio (ben 48 secondi) per concludere poi il filmato con la necessaria quanto scontatamente ovvia affermazione: “My name is Andy Warhol and I’ve just finished eating a hamburger”. Questo video, girato dal regista danese Jørgen Leth, ben rappresenta la personalità di Warhol: timido e mistico nell’interpretazione assolutamente anodina, si pone davanti alla telecamera come se fosse seduto al fast food in mezzo alla folla; i suoi gesti non sono “interpretati” anche se, nella loro normalità, acquistano un carattere quasi liturgico. Ma al di fuori della “rappresentazione”, l’artista impone i suoi gusti precisi rifiutando la confezione di un hamburger anonimo e preferendo quella di Burger King anche se, prima della registrazione, manifesta un deciso apprezzamento per le qualità estetiche di McDonald’s, “quello che ha la confezione più bella di tutte”.

Koert van Mensvoort, The In Vitro Meat Cookbook

Koert van Mensvoort, The In Vitro Meat Cookbook

TRA PASSATO E FUTURO

Ancora gigantesco è il Big Big Mac, l’hamburger di gomma realizzato da Tom Friedman nel 2013. Senza assumere l’apparente connotazione pop, questa scultura gioca con la dinamica relazione tra immagine complessiva e dettaglio, tra il generale che occupa per intero lo sguardo e il piccolo particolare che si nota soltanto a distanza ravvicinata. Ma l’ambiguità dell’hamburger riserva altre sorprese. Infatti, anche da cruda la polpetta di carne trita suggerisce a Marcel Duchamp la preparazione di una tartare da presentare su un piatto bianchissimo, “in modo che nessun elemento estraneo disturbi la distribuzione degli ingredienti”. Eccoli: mezza libbra di carne trita di manzo, due uova, una cipolla bianca tritata, capperi, filetti di acciuga, prezzemolo, olive e foglie di sedano tritati finemente. “Ogni ospite, con il piatto davanti a sé, mescola con la forchetta gli ingredienti […]; al centro della tavola pane di segale, burro e una bottiglia di vino rosato”.
Questo il passato. Ma il futuro dell’hamburger? Da un punto di vista gastronomico è già realtà la carne sintetica, ricavata da colture di cellule staminali di mucca. Una prima porzione è stata cucinata quattro anni fa per una clientela selezionatissima, che ha giudicato questo hamburger privo di gusto perché non ha grasso, ma molto simile alla carne vera. Anche se per ora è un po’ caro: 250mila euro per i suoi 150 grammi di materia prima! E dal proliferare di queste cellule sono sorte le innovative proposte dello scienziato/filosofo/artista olandese Koert van Mensvoort: utilizzare questa fibra di carne per la realizzazione di opere d’arte con la tecnica del tricotage o dell’uncinetto.

Carlo e Aldo Spinelli

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40

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Carlo Spinelli

Carlo Spinelli

Laureato in Lettere Moderne e iscritto a Storia Antica, viaggia mangia e scrive in ordine sparso per ItaliaSquisita, Rolling Stone, La Cucina Italiana e Wired. Approfondendo l'antropologia dell'alimentazione nel contemporaneo mangiare, tra culture e geografie all'antitesi, ama in egual misura…

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