Architettura e utopia. Carlos Garaicoa a Torino

Fondazione Merz, Torino ‒ fino al 4 febbraio 2018. L’artista nato a L’Avana rende omaggio alla città di Torino con una riflessione che chiama in causa il tessuto architettonico urbano. Fra rimandi alle utopie novecentesche e richiami al tempo presente.

La riflessione sullo spazio urbano e architettonico è da sempre per l’artista cubano Carlos Garaicoa (L’Avana, 1967; vive a Madrid e L’Avana) una chiave d’accesso a paradigmi più complessi, dove la storia del presente e del recente passato si frammenta in segni, vestigia e relazioni. C’è molto della sua propensione a porsi come archeologo urbano nella personale El Palacio de las Tres Historias, a cura di Claudia Gioia, ospitata dalla Fondazione Merz. Un progetto diluito in grandi installazioni, opere fotografiche e video, dedicato a Torino, allegoria di una città metamorfica, capace di riconversioni esemplari del proprio declino industriale, testimoniato da architetture dismesse e riconsegnate a nuovi usi. Di tutto questo, la capitale sabauda di Garaicoa mostra citazioni decostruite e poi ricomposte in una sontuosa ibridazione iconografica nei grandi cartelloni prismatici rotanti, come quelli pubblicitari issati sui grattacieli. Un ininterrotto, incombente e mutevole panorama d’immagini che sposta l’analisi urbanistica verso altri linguaggi, dalla pubblicità al cinema. O verso il disegno, che scorta la poderosa animazione dei pannelli con la serie Edificios parlantes, memorie di quell’architettura parlante di taglio illuminista qui, però, convertita in un arguto rapporto tra forma e parola, viatico per El Palacio de las Tres Historias, la grande installazione che dà il titolo alla mostra.

Carlos Garaicoa, dalla serie Talking Buildings (Less is More), 2011. Photo Credits Oak Taylor Smith

Carlos Garaicoa, dalla serie Talking Buildings (Less is More), 2011. Photo Credits Oak Taylor Smith

RIMANDI INCROCIATI

Molti i riferimenti messi in campo, soprattutto alle utopie novecentesche, svaporate nel vuoto di un edificio disabitato e sorpreso nella sua fatale decadenza. Oppure, in architetture iconiche, dal Pantheon agli edifici razionalisti, ansimanti mentre esalano dai propri orifizi un ultimo respiro, rappreso in eteree escrescenze vitree. Ma l’utopia ritorna nel Campus or the Babel of Knowledge, luogo immaginario che evoca la circolarità della struttura panoptica pensata da Foucault, non meno di quella recentemente aggiornata da Dave Eggers nel suo fortunato The Circle. A conclusione di un percorso dove spazio pubblico, progettazione urbana, passato e presente trasmutano in memorie solidificate, il video Abismo si concede la commovente rilettura della più insanabile ferita del Novecento. Uno schermo “all white” mostra delle mani disegnate in rosso, come in un fumetto. Si muovono gesticolanti, accompagnate da Quatuor pour la fin du temps, brano composto da Olivier Messiaen in un campo di concentramento nazista. Solo dalla didascalia scopriamo che sono le mani di Hitler, mentre arringa le folle ululanti, ridotte a un leggiadro tratto di penna rossa, decontestualizzate ma ancora gravide di una tragica ferocia appena scalfita dal minimalismo del segno.

Marilena Di Tursi

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Marilena Di Tursi

Marilena Di Tursi

Marilena Di Tursi, giornalista e critico d'arte del Corriere del Mezzogiorno / Corriere della Sera. Collabora con la rivista Segno arte contemporanea. All'interno del sistema dell'arte contemporanea locale e nazionale ha contribuito alla realizzazione di numerosi eventi espositivi, concentrandosi soprattutto…

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