Ultime da Viafarini Docva. Intervista a Dafne Boggeri

Dafne Boggeri si muove tra le arti visive, collettivi queer, performing art ed editoria indipendente (è infatti l'ideatrice di SPRINT, salone del libro d'artista e pubblicazioni D.I.Y.). La sua mostra più recente, presso Marsèlleria a Milano, è stata il pretesto per incontrarla e discutere dei suoi progetti.

Hai definito il tuo progetto di mostra LIANE~LINEA~ALIEN come un “one-woman group show”. Due terminologie (“one-woman” e “group show”) che unite richiamano – non senza umorismo – il campo musicale e quello espositivo.
Oltre l’aspetto visivo emergono dalla mostra con forza gli altri sensi come la tattilità, l’udito, ma anche il gusto (con il cocktail Dry Eye) e la scelta di “rompere” lo spazio (articolando il progetto in tre eventi in tre location diverse, di cui una in un cinema, il Beltrade).
L’idea di usare l’espressione “one-woman group show” è stata della curatrice del progetto Giulia Tognon, il termine è servito per allineare ai blocchi di partenza tutte le carte scompaginate della ricerca portata avanti in questi anni. Carte che poi si sono subito rimescolate. L’inaugurazione è stata accompagnata, al piano terra della Marsèlleria, da una performance in collaborazione con il gruppo inglese Stasis e da un display per valorizzare l’edizione del libro Born in Flames di Kaisa Lassinaro (Occasional Papers, 2011) volume che è la trasposizione cartacea della pellicola omonima diretta da Lizzie Borden nel 1983, film che abbiamo presentato con Lizzie al cinema Beltrade insieme ad altri contenuti video come il documentario di Fabrizio Terranova Donna Haraway: Story Telling for Earthly Survival (2016) e il formato televisivo D.I.Y Donna Haraway Reads The National Geographic on Primates (1987).

Quali erano i vostri obiettivi?
Volevamo innescare un’invasione avvolgente ‒ probabilmente se avessimo avuto un modello ideale al quale ispirarci sarebbe stato quello dei Visitors ‒ che esplorasse più dimensioni di fruizione, dallo spazio neutro all’ibrido della zona d’accoglienza e degli uffici di Marsèlleria ‘Paradiso’ alla dark-room del cinema, sino a quei luoghi aperti al pubblico per la prima volta: come la terrazza e il campo da basket adiacenti alla sala di proiezione. Possiamo considerare gli spazi architettonici coinvolti e la dimensione sensoriale articolata come parte intrinseca del termine ‘group’.

Dafne Boggeri, The Question on many Lips, 2017. Courtesy Marsèlleria. Photo Sara Scanderebech

Dafne Boggeri, The Question on many Lips, 2017. Courtesy Marsèlleria. Photo Sara Scanderebech

Tra le diverse opere in mostra c’erano anche dei normografi, degli strumenti usati per standardizzare le scritte e i codici del disegno tecnico, che hai esposto dopo averli piegati, deformati. Ci ha fatto venire in mente lo slogan “If it’s straight bend it!” (con cui un nostro amico ha realizzato una t-shirt).
I normografi sono oggetti che colleziono e che ho usato per la prima volta in un’installazione realizzata ad ASSAB ONE nel 2004. Il concetto dello standard è rassicurante e porta con se tutta una serie di questioni importanti sulla percezione: sociale, razziale, di genere, anche in relazione ai sistemi di codici e norme imprescindibili, come ad esempio il linguaggio. I normografi condensano tutte queste frizioni e aspirazioni in un momento in cui la loro stessa funzione si sta trasformando da oggetto d’uso tecnico diffuso a eccezione. Deformarli è stato come eseguire su ogni pezzo un programma di aggiornamento: ora possono abbracciare altre dimensioni, compresa quella imprescindibile dell’errore. Mentre rispetto allo slogan è buffo come tutto possa confluire a zig-zag. In effetti nel 2006 ho invitato il duo This is not a Magazine (Karen Ann Donnachie e Andy Simionato) a collaborare per una piccola pubblicazione dal titolo I CAN’T THINK STRAIGHT, che poi e stata distribuita dalle curatrici Chiara Agnello e Roberta Tenconi durante la loro residenza al Gertrude Contemporay Art Spaces di Melbourne. La cover della zine era proprio un disegno realizzato con uno dei normografi più comuni, quello per fare le circonferenze, che assomiglia alla sezione di una nuvola paffuta e psichedelica.

La realizzazione di poster e altro materiale grafico attraversa tutte le tue attività, dall’essere un’interfaccia per le serate e gli eventi che organizzi alle fanzine fino a entrare in mostra, come un pezzo di essa che può essere preso e portato a casa dai visitatori. Si apre così all’imprevisto, possiamo considerarla una strategia di innesco, di contaminazione?
Sì, sono tutte parti che tendono facilmente ad assumere una propria identità incontrollata. Ma nello spazio espositivo diventano motori di una vera e propria coreografia spontanea e inconsapevole: l’attenzione che cade sull’oggetto e devia la traiettoria del movimento, l’osservazione più approfondita, l’esitazione mossa dalla curiosità, lo sporgersi per prenderne una copia cercando di ottimizzarne il trasporto nel modo più sicuro e semplice, con quella speciale sensazione di aver vinto e/o rubato qualcosa.

Dafne Boggeri, Training Coincidences, 2017. Courtesy Marsèlleria. Photo Sara Scanderebech

Dafne Boggeri, Training Coincidences, 2017. Courtesy Marsèlleria. Photo Sara Scanderebech

La tua è una pratica segnata dalla costituzione di alleanze trasversali, e spesso ti sei confrontata con modalità di cura e ospitalità, da MOTHER (dedicato ad artiste e musiciste donne) passando per FULL MOON SALOON e SPRINT, hai creato molte occasioni di scambio e networking.
Sono tutte esperienze in cui, oltre al lavoro teorico e pratico iniziale, lo sguardo finale è poi rivolto a chi decide di attraversarle ‘qui e ora’.
MOTHER è stato un festival itinerante in tre tappe realizzato con l’artista Noga Inbar e con la preziosa collaborazione di Nicole Emmenegger e Sonja Cvitkovic. Dal 2009 al 2011 si è svolto a Tel Aviv, Londra e Berlino, coinvolgendo artiste che avevano una stretta relazione con il suono e performer spesso al di fuori di una categoria musicale precisa, in spazi indipendenti connessi fra loro per la prima volta sotto un’unica manifestazione. Abbiamo mischiato molte caratteristiche e probabilmente c’è ancora qualcuno che si sta interrogando su ‘cosa sia stato quel vortice nebuloso’. Quello che ne resta sono tre puntini, un disegno immaginario che unisce le sedi del festival, un perimetro triangolare che forse ha contribuito alla nascita di nuove alleanze o semplicemente ha supportato, anche economicamente, progetti svincolati dalla logica della promozione, aspetto che purtroppo condiziona molto la programmazione live.
Il percorso si è poi concluso con un episodio spin-off alla 54esima Biennale di Venezia, all’interno del programma di Chewing the Scenery a cura di Anrea Thal per il padiglione off Svizzero al Teatro Fondamenta Nuove. In quell’occasione c’è stata l’ultima grande sorpresa, Vera November (Electrelane) e Maya Dunietz hanno improvvisato l’ultimo pezzo a 4 mani, 2 teste e 1 tastiera.

Che cosa ha rappresentato, invece, FULL MOON SALOON?
FULL MOON SALOON è stata l’occasione di celebrare ed esorcizzare l’anno 2012, così carico di potenziali cambiamenti, attraverso una serie di incontri serali, ospitati nello spaio non profit O’ di Milano e scanditi dal calendario lunare nel corso di tutto l’anno. 13 lune per 13 momenti in cui fra l’altro si è trovato spazio per rivedere Jubilee (1978) di Derek Jarman, ascoltare Molly Nilsson, Adele H, Sequoyah Tiger, Carlos Giffoni e Maria and the Mirrors, osservare le coreografie domestiche di Simona Rossi e Busy Ganges, assaggiare disegni stampati al plotter su fogli commestibili di KEY LIME HIGH e inventare una parola.
Ora l’attenzione è tutta rivolta alla quinta edizione di SPRINT, Salone non profit di Editoria Indipendente e d’Artista, che si svolgerà a Milano dal 24 al 26 novembre suspense…

Dafne Boggeri, Terzo tempo, 2017. Courtesy Marsèlleria

Dafne Boggeri, Terzo tempo, 2017. Courtesy Marsèlleria

Come è nato il collettivo queer TOMBOYS DON’T CRY? Di cosa vi occupate?
TBD’C è un collettivo LGBTQAIXYZ che promuove avventure intorno a questioni post-identitarie. È un capitolo del percorso iniziato nel 2000, quando insieme a Tina, Elisa, Satia, Ango, Rob e Marcorso abbiamo dato vita a Milano alla PORNFLAKES CREW, primo collettivo queer italiano. Era un momento particolare, a bordo Internet e in assenza di app, con la comunità dominata da due soli tipi di luoghi, quelli commerciali sia per organizzazione che per contenuti, o quelli isolati da qualsiasi circuito, posti che preservavano la privacy di chi li frequentava, senza particolare interesse alla modalità di incontro se non per l’offerta fisica. Con PORNFLAKES ci siamo infilati nell’interstizio fra questi mondi e abbiamo creato il nostro, o per lo meno ci abbiamo provato, e per la prima volta ragazzi, ragazze, amici e nemesi, di qualsiasi genere e orientamento si trovavano in luoghi particolari (dagli Spazi Occupati  che ci osservavano con diffidenza, ai Club che non capivano chi e cosa fossimo, ai Bar malfamati che non si ponevano alcuna domanda…) a ballare musica elettronica indipendente, dall’Electro old-school alla Techno di Detroit alla House body-jack, con performance lampo e l’obbiettivo di abbattere certe barriere a suon del mantra: Frivolezza Tattica e Resistenza Ludica!

Cosa è successo dopo?
Dopo alcuni anni di intenso lavoro, l’energia del gruppo è mutata. Nel 2011 con dj S/HE abbiamo deciso di creare TBD’C iniziando a organizzare serate e concerti coinvolgendo musiciste che difficilmente avrebbero avuto l’occasione di suonare a Milano e coltivando una scena locale di dj come ISAMIT MORALES, ASHASHA, ALIENI, PETRA che continua a crescere. Dopo anni itineranti, grazie all’intuito formidabile di Camilla Candida Donzella, abbiamo trovato un posto ideale per ospitare le serate TBD’C, il KO Club, uno degli ultimi luoghi storici legati alla comunità, un posto particolare nel suo folklore tipico, totalmente fuori dal tempo. Produciamo anche una piccola linea di materiale per supportare il gruppo, con progetti che sostengono un messaggio non-binario.

Dafne Boggeri, Tomboys don't cry, Nail Bar, Mono, Milano, 2012

Dafne Boggeri, Tomboys don’t cry, Nail Bar, Mono, Milano, 2012

Ci puoi parlare della tua esperienza con la compagnia di arti perfomative Barokthegreat?
Barokthegreat è il progetto della danzatrice/coreografa Sonia Brunelli e della musicista Leila Gharib, di base a Verona. Ho sempre ammirato il loro percorso, radicale e incisivo ma aperto a fascinazioni del tutto personali verso sottoculture pop e periferiche, con uno sguardo raro sulle cose. Nel 2012 la compagnia ha iniziato a confrontarsi con una formazione più allargata e grazie a una residenza del Festival Santarcangelo abbiamo iniziato a definire Indigenous ‒ dramma sonoro, lavorando a ritmi serrati, tutti sfasati dalla totale sospensione che crea il teatro di prova, con la sensazione di accumulare un jet-lag senza spostarsi e con la consapevolezza che quel momento sarebbe stato unico per lo sviluppo del progetto. Ogni lavoro del gruppo vive su un magico equilibrio fra parte sonora e movimento, con un grande spazio lasciato alla sperimentazione. A quel lavoro iniziale sono seguite performance più brevi, come L’attacco del Clone e Cobra sino a Victory Smoke (2014), che è stato il momento più complesso, per il numero delle persone coinvolte e le condizioni di produzione.

Come è mutato il tuo ruolo?
Il mio ruolo è sempre stato aperto, sia verso la scelta dei dispositivi scenografici che sui costumi, sia come assistente di Sonia per le luci e gli effetti di scena. Sono state tutte situazioni di immersione totale, nelle quali devi provare a dare il meglio in tempi prestabiliti e a trovare escamotage rapidissimi. Ora il mio ruolo è tornato a quello iniziale, cioè nel comparto Fans e Ultras per il progetto musicale Sequoyah Tiger, al quale Leila si sta dedicando negli ultimi anni e alla ricerca solista di Sonia verso quel particolare stile Footworks che si è sviluppato a Detroit negli Anni ’90.

In Cruising Utopia, Munoz scrive: “Queerness as utopian formation is a formation based on an economy of desire and desiring. This desire is always directed at that thing that is not yet here, objects and moments that burn with anticipation and promise. […] Indeed to access queer visuality we may need to squint, to strain our vision and force it to see otherwise, beyond the limited vista of the here and now”. Se si inizia a immaginare qualcosa, questo prende vita, inizia a esistere?
I mondi si creano attraverso il desiderio e le ossessioni, le stesse ragioni per le quali, a volte, si distruggono, ma non per questo bisogna averne paura. Il rischio è fondamentale per muoversi dalla zona-comfort e magari riuscire anche a raggiungere il traguardo. migliore: perdersi.

Gabriele Longega e Ilaria Zanella

https://www.lianelineaalien.xyz/

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www.docva.org
www.sprintmilano.org

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39

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