Ultime da Viafarini. Intervista a Giorgia De Santi

Abbiamo incontrato Giorgia De Santi, artista emergente che vive e lavora a Venezia, per parlare con lei della performance che ha realizzato a marzo negli spazi di Viafarini a Milano. Quali corpi e quali sessualità possono essere considerati reali e autentici e quali no? L’attenzione che l’artista rivolge alla performance drag rappresenta, in parte, un modo per riflettere non solo sulla performatività del genere, ma sulla sua risignificazione collettiva.

Quando ti abbiamo invitata a Milano per performare (How) Can a Woman Be a Drag (Queen)?, nonostante fosse tra le tue prime esperienze, hai dimostrato di avere già le idee molto chiare sulla tua linea di ricerca. La performance che hai presentato trasmetteva una idea di transizione perenne, che caratterizza tutto il tuo lavoro. La parte di azione con il flessibile, ad esempio, era potentissima nella sua essenzialità. Vuoi parlare della performance a chi non era presente?
Lo spazio era condiviso con altri due performer, con cui si sono venuti a creare tre poli di un lavoro collettivo. Le azioni di ognuno si svolgevano in contemporanea, in una sorta di cacofonia visiva, a volte ordinata a volte caotica. Io avevo un tavolo a disposizione, con ogni sorta di trucco e un laptop che trasmetteva in loop da un paio di cuffie il brano Let me be a drag queen di Sister Queen. Mi sono truccata, cercando di ottenere una fisionomia né prettamente maschile né femminile, mentre scrivevo sul muro “come può una donna essere una drag queen?” o “come la mettiamo con chi non sente di rientrare nelle categorie di donna/uomo?”. Cercavo un dialogo con chi era presente, invitavo le persone a sedersi di fianco a me e provare a osservare le cose da questo punto di vista. Poi mi sono liberata del trucco e dei vestiti e sono passata a usare il flessibile muovendomi nello spazio. Immaginatevi un’azione in un certo senso opposta: il flessibile in un ambiente chiuso crea un rumore difficile da sopportare, la cascata di scintille non la vorresti vedere arrivare sui tuoi vestiti, e i gesti mimavano quelli di una sorta di aggressiva masturbazione.

Questa performance si è sviluppata a partire da un tuo lavoro precedente, realizzato a Venezia nel mese di dicembre 2016, vero?
Sì, il lavoro realizzato nel contesto della Venice International Performance Art Week all’interno della sezione Fringe. Anche lì ho scelto di lavorare con il flessibile, e alla messa in crisi della visione binaria dei generi. La performance si sviluppava intorno alla relazione con una pianta con due fiori, due sessi. Credo che quello fosse un lavoro più intimo, che mi ha confermato il bisogno di affrontare questioni di genere, identità e transizione nella mia pratica artistica.

Giorgia De Santi, (How) Can a Woman be a Drag Queen?, Viafarini, Milano 2017. Photo Caterina Ragg

Giorgia De Santi, (How) Can a Woman be a Drag Queen?, Viafarini, Milano 2017. Photo Caterina Ragg

Nelle tue ultime performance metti in atto una contaminazione tra due campi che altrimenti sembrano molto distanti e raramente comunicano tra loro, quelli dello spettacolo drag e della performance d’artista. Come mai hai sentito la necessità di decontestualizzare il drag e portarlo all’interno di uno spazio espositivo? Non è la prima volta che coniughi il lavoro di performer con la tua pratica attivista (pensiamo a Postcard from Venice, 2016).
Insisto sul fatto che la pratica drag, in Italia ma non solo, nell’immaginario collettivo vede una drag queen come un uomo travestito da donna, e il suo specchio drag king, come una donna travestita da uomo. Nel contesto europeo, o americano, esistono invece esempi di altre identità drag queen. Non intendo solamente donne che esaltano la propria femminilità a fini spettacolari – per farla facile pensiamo a Lady Gaga – ma anche donne, donne queer, persone gender-fluid, cross-gender, a-gender che volutamente scelgono gli spazi e le modalità drag solitamente di dominio maschile, e che per questo incorrono in dibattiti su quanto sia legittimo, appropriato, “giusto” per loro inserirsi in questi spazi (vedi i dibattiti avvenuti nel programma americano Rupaul’s Drag Race). Non a caso una donna drag queen è chiamata faux (falso, erroneo, finto) queen, con quest’accezione negativa che non riesco ad accettare.
Penso che uno spazio espositivo possa essere uno strumento utile ad aprire dialoghi sulla questione, ad avvicinare le persone a questo mondo e creare possibilità di scambio: per uscire dalla logica della legittimazione.

Ti sei formata in Arti Visive allo IUAV e al Centro Teatrale di Ricerca di Venezia, come e quando è avvenuto il passaggio alla performance art?
La performance art era qualcosa di presente già al Centro Teatrale di Ricerca, dove il teatro inteso come ripetizione di un atto scenico era marginale mentre si dava più importanza allo sviluppo performativo personale e alla relazione collettiva. All’università ero interessata alla componente rituale della performance, il suo legame con i riti di passaggio e la sua potenza come spazio liminale. Tutto questo l’ho trovato poi entrando nel contesto della Venice International Performance Art Week, iniziata nel 2012 e curata dal duo Verena Stenke e Andrea Pagnes (VestAndPage). In questa serie di appuntamenti a cadenza biennale, ho avuto l’onore di conoscere performer nazionali e internazionali, giovani artisti e figure che hanno “fatto la storia”, personalità radicali, eclettiche, amichevoli, che mi hanno dato molto.

Giorgia De Santi, Untitled, 3° Venice International Performance Art Week (sezione Fringe), Venezia 2016. Photo Lorenza CIni

Giorgia De Santi, Untitled, 3° Venice International Performance Art Week (sezione Fringe), Venezia 2016. Photo Lorenza CIni

Quali sono i tuoi riferimenti o influenze? Nel tuo lavoro vediamo qualche connessione con la scena post-porno di Barcellona e il pornoterrorismo di Diana Torres, ad esempio.
I miei riferimenti vengono dai queer studies, da un’iconografia un po’ trash, dal teatro, da film stile Priscilla la Regina del deserto (sì, l’ho detto). A livello teatrale, mi piace molto il lavoro di Silvia Calderoni e del gruppo teatrale Motus, in particolar modo il suo spettacolo MDLSX, che riesce a essere allo stesso tempo un’esplosione e una carezza. Nell’arte visiva e performativa, sicuramente ha giocato un ruolo fondamentale conoscere La Pocha Nostra, un gruppo di artisti attivisti-radicali provenienti da tutto il mondo con fondatore Guillermo-Gomez Peña. Oppure Francis Alÿs, Heather Cassils, o artisti eclettici come Bruce LaBruce, Matthew Barney. Per quanto riguarda l’uso del flessibile, ho scoperto esserci un’intera scena internazionale di locali con proposte di angle grinder shows!

Gabriele Longega e Ilaria Zanella

www.viafarini.org
www.docva.org

Artista segnalato su Artribune Magazine #38

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