Essere-presenti-scomparendo (V). Esistere nell’impermanenza

Essere fuori & dentro al tempo stesso e scoprire quanto gli “scarti” possano essere preziosi. È questa la strategia da mettere in campo per far fronte all’oggi.

Lavorare sul bordo, in condizioni precarie – togliere via tutto, rimescolare – sfuggire la retorica, scavare proprio dove non c’è niente e sai benissimo che non c’è niente, mangiare il vuoto – nascondersi (come vietcong), non apparire, il desiderio di non ostentazione: fare sempre – il contrario di ciò che ci si aspetta, oggi, in giorni dominati dall’ansia di prestazione e di “esserci” come essere riconosciuti. Vivere nel momento, essere nel momento (questa grande aspirazione inevasa) – e improvvisamente non esserci. La responsabilità consiste nello sfuggire ai compiti assegnati. “Essere-presenti-scomparendo” è la condizione di un fantasma vivo, che ha cose da fare e tristezze da esercitare, ma il punto di vista unico è quello di chi è al tempo stesso fuori & dentro. È la situazione di chi esiste nell’impermanenza, di chi ricerca nell’oscurità, di chi trova da ridere (anche) nell’infelicità. La gioia inespressa dell’assenza di prospettive; e dello scoprire quanto preziosi sono gli SCARTI.

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Max Ernst, Il bacio, 1927

Max Ernst, Il bacio, 1927

Che cosa è importante per te? Che cosa è fondante, che cosa è radice?
Un sentimento oscuro
L’impiego di scarse risorse
Un’arte fatta da chi non ne è capace, un imprevisto
Un disimpegno, la disillusione
Maschere non ironiche, che intrappolano il sé e nello stesso tempo convogliano la sua espressione: la permettono
Il sentimento prematuro del tempo che passa
Un punto di vista progettualmente negativo sulla realtà
Il sentimento del legame sconosciuto tra le cose
Il fastidio per il conformismo e la rassicurazione
Un ghigno irriverente e un po’ inquietante
La ferma volontà di non piacere
Domande su domande
Un rapporto sano e creativo con il sovraccarico di informazioni
Una critica sociale abrasiva
Un vero amore per la corrosione e per le superfici smangiate

Non atteggiarsi, non posare; svicolare, distrarre l’attenzione; concentrarsi, ma senza mostrare di essere concentrati; fare solo ciò che serve; l’utilità al posto della dimostrazione di bravura; semplicità e intransigenza; rigore unito a contegno beffardo.
Qualsiasi pretesa io possa avanzare sull’originalità della mia narrativa è solamente il risultato di questo mio strano background: fondamentalmente io che lavoro in modo inefficiente, con strumenti difettosi, in un ambiente in cui non ho abbastanza conoscenza per comprendere tutto. Come se si mettesse un saldatore a disegnare vestiti” (George Saunders).

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James Rosenquist, Isotope, 1979

James Rosenquist, Isotope, 1979

‘Sognare di’ non è fare, così come ‘fare-finta-di’ non è essere. Questo tipo di opera – l’opera viva ‒ resiste particolarmente allo spazio istituzionale, ufficiale, separato, perché tende per costituzione a inoltrarsi e a confondersi con la realtà. L’opera, anzi, non esiste al di fuori della realtà e del contesto di riferimento, dello spazio dell’esistenza. E, tra l’altro, dubito fortemente che nella storia dell’arte ‒ tranne forse proprio quella fatta di opere destinate al museo sin dalla loro apparizione (opere tecnicamente ‘morte’), in ogni caso molto breve ‒ il funzionamento sia mai stato troppo diverso. Fin dai suoi inizi. Molto probabilmente, le opere vive di ogni epoca finiscono al museo quando gran parte del loro potenziale di partenza si “scarica”, per così dire ‒ oppure quando vengono travisate. Come scriveva Giorgio Manganelli, il museo, luogo cimiteriale e concentrazionario per definizione, “nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode” (La favola pitagorica).
Scivolare via dal recinto – e concentrarsi su quegli artisti che stanno lavorando per questo; che costruiscono giorno per giorno un piano diverso di esistenza (in cui l’arte verrà accolta nel prossimo futuro); che resistono egregiamente ai condizionamenti e alle pressioni; che sfuggono al display con grazia.

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… Di pomeriggio, al ritorno da scuola, con mia madre e mio fratello ci fermavamo a comprare la focaccia dal panificio sotto casa – il rito era Beautiful, e un pezzo di focaccia calda verso le due, in attesa del pranzo – ecco, per esempio Non è la Rai non lo vedevamo se non raramente, perché a quell’ora nel soggiorno di casa regnavano Ridge, Brooke e la vecchiarda malefica (Ambra e le altre erano solo ombre transeunti, tutto sommato).
Questo durante la scuola media; qualche anno prima, nella seconda metà degli Anni Ottanta, il libro sull’astronomia e sui pianeti che qualcuno, forse mio zio, mi regalò credo per la prima comunione insieme al telescopio: compatto ma esauriente, con la copertina rigida e lucida, con illustrazioni bellissime, è stato anche quello un oggetto per me fondante.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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