Vita, arte, relazione

Una riflessione sullo sviluppo di dinamiche relazionali all’interno dell’universo creativo. Partendo dalle Mappe di Alighiero Boetti come esempio di azione collettiva.

Perché il concetto di “relazione” è venuto a imporsi nel settore artistico? L’affermarsi della relazione come principio fondante della pratica artistica è nato come una necessità sempre più radicata nell’artista di porre la sua opera in stretto contatto con la vita, o meglio, che tale “prodotto” fosse contestualizzato nell’atto della sua formazione, nella vita stessa.
Questa situazione risulta essere il punto d’arrivo di un lungo processo della storia dell’arte e del concetto stesso di fare arte, iniziato irrimediabilmente con la nascita dell’Espressionismo. Prende inizio un mutamento radicale che si è registrato sotto diversi aspetti ma che ha avuto un merito particolare: quello di aver fatto iniziare, per la prima volta in maniera effettiva, il processo di integrazione della vita nel fare artistico. L’intento dell’artista ormai rimane sostanzialmente questo: la volontà di portare la vita nell’arte, o viceversa.
Ma la rottura indotta delle avanguardie artistiche del primo Novecento è genitrice di un altro periodo di vitale importanza nel panorama artistico dello stesso secolo: la nascita delle seconde avanguardie e delle sue conseguenze, sviluppatesi negli Anni Sessanta con l’arte concettuale. È importante analizzare questo periodo, in quanto costituisce il primo punto d’arrivo del processo di integrazione dapprima citato. Gli aspetti che hanno caratterizzato questo decennio sono svariati, ma quello che sicuramente possiede il germe dell’arte relazionale, è il “coinvolgimento” del pubblico nel processo formativo dell’opera, ormai svincolata da ogni tipo di canone o sistema, che vive nella sua realtà in continuo divenire, che è fatta della sostanza delle azioni compenetrate tra loro, sotto diverse forme espressive, in un contesto dove anche il gesto di un qualsiasi individuo partecipante diviene rilevante per la generazione dell’opera.
La realtà non viene più rappresentata o interpretata in qualche modo, risultando un tradizionale “contenuto”, ma dopo tutto il processo di integrazione diventa medium e contenuto nello stesso istante, presenti nel flusso generativo dell’opera. La realtà, nel senso anche pragmatico del termine, è diventata arte.

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Randi Malkin Steinberger, Boetti by Afghan people, 1990

Randi Malkin Steinberger, Boetti by Afghan people, 1990

In tale sfera l’opera di Alighiero Boetti, emersa nella seconda metà degli Anni Sessanta, si presenta come un ulteriore punto di contatto a distanza con l’arte relazionale. Prendiamo una delle sue serie più note, le Mappe (1971-72). Come mai questa serie di opere d’arte riesce, a distanza di circa trent’anni, a diventare un modello precursore dell’opera relazionale? La risposta potrebbe trovarsi nel modo in cui Alighiero Boetti le ha concepite. Il “modo” cambia, il risultato ne è solo una conseguenza.
Non è sbagliato sostenere che Boetti concepisse l’opera già come un interstizio sociale quando nel 1971 iniziò la serie. Fece realizzare dei grandi planisferi politici, i quali partendo dalla sua idea finirono nelle mani di una collettività di ricamatrici afghane per la realizzazione pratica dell’opera d’arte. L’espressione “collettività” non è usata a caso, dal momento che quest’ultima indica un gruppo di individui emersi da una determinata società, entro il quale inevitabilmente si instaurano relazioni, legami interpersonali.
Forse il merito di Boetti è stato proprio quello di aver saputo canalizzare questo processo sociologico nell’operare artistico, in un ambito conviviale. La forma estetica e materiale, intesa come prodotto finito e tangibile, di conseguenza duraturo nel tempo, è costituita dai valori estetici quali i colori con i loro contrasti, i simboli delle bandiere e i contorni delle nazioni. Essa è figlia di una “forma madre”: la forma relazionale, quella composta dai legami tra le diverse ricamatrici afghane, dai loro sguardi che si incrociavano tra un ricamo dell’Italia e uno della Gran Bretagna, dai passaggi dei fili colorati tra le loro mani. Una dualità di forme, questa, coesistente in un’unica opera d’arte, che va a constatare l’importanza nodale dell’interstizio sociale nato a capo dell’ideologia artistica, capace di procreare un’ulteriore forma. L’arte si ripresenta immersa in un flusso, inserita in specifici ambiti della realtà, entro i quali vengono proposti nuovi modelli relazionali che hanno come fine la pratica artistica. È una meta-realtà in atto.
E c’è anche un altro aspetto: la volontà dell’artista mira a infrangere le barriere tra una nazione e l’altra (e tra un continente e un altro), mediante il forte impatto visivo delle forme simboliche adottate (bandiere, colori delle nazioni) che hanno, come sostiene anche Michel Maffesoli, un potere di reliance e quindi di produrre empatia e legami.

Floriana Farano

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Floriana Farano

Floriana Farano

Floriana Farano è nata a Foggia nel 1993. Si è laureata in Nuove Tecnologie dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia con una tesi su "La relazione come forma artistica". Coltiva la passione per l’arte contemporanea e la critica…

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