FuoriFormato. Reportage dal festival di danza a Genova

A fine giugno, il festival internazionale di danza contemporanea e videodanza ha animato gli ambienti genovesi di Villa Durazzo.

Teatro Akropolis, Rete Danzacontemporanea e Augenblick portano la danza contemporanea e la videodanza alla Villa Durazzo di Genova. Torna così FuoriFormato, quattro giorni, tredici spettacoli e venti film dall’Europa, dal Canada e dagli Stati Uniti, per parlare di corpo, o meglio di quanto il corpo assorba il dettaglio e lo restituisca come rapporto con il mondo. Nella Villa Durazzo, baluardo decadente di nobiltà che s’oppone alla devastazione dell’Ilva di Cornigliano, Caterina Basso (scuola Aldes), con Un minimo distacco, si confrontava con la terra, le foglie secche di magnolie, le statue appisolate nel parco della Villa e soprattutto la luce naturale del tramonto.
Forte è qui la rielaborazione di un modus operandi del sentito, del vissuto e infine di ciò che, assorbito, oscilla tra dialogo interiore e comunicazione con l’esterno. Al gracidare insistito delle rane nell’acqua salmastra della fontana si aggiungono rumori che scompongono in piani il paesaggio sonoro dei primi minuti di questo breve solo. I suoni sono lame che tagliano il sé in due: quello aggrappato ai ricordi e quello che ha stabilito un minimo distacco. Coreografia quasi viscerale, sicuramente astratta ma nata da un istinto di sopravvivenza. La stessa composizione è bi-partita, la Basso si chiude al mondo, dei tappi alle orecchie la isolano nella distanza, l’ascolto è dei muscoli, delle articolazioni, degli snodi. Poi la frattura si ricompone, I’m on fire di Springsteen fa da tappeto a frammenti di topoi sfuggiti da luoghi comuni cinematografici. Il ritorno al mondo è ricerca di un contatto, con un ukulele in mano. Che Dio benedica l’ironia della Basso e quella di Marylin.

Fuori Formato Festival 2018. Federica Dauri. Photo Francesca Marra

Fuori Formato Festival 2018. Federica Dauri. Photo Francesca Marra

GALLI E DAURI

Poco ironico ma forse devoto all’abbigliamento di Merce Cunningham ‒ nella trilogia di ChangelingNicola Galli fa un mix siderale di suggestioni artistiche e coreografiche. Dai neon di Dan Flavin, usati per creare l’effetto raggelante della luce cosmico-planetaria, ai calori diafani di Olafur Eliasson, fino alle movenze da Arlecchino robotico in una sorta di variante lineare della marionetta. Danza che simula l’approdo sul pianeta che ha ispirato centinaia di pellicole, pulita, formale. Senza slanci e sporcature, fa della fragilità un equilibrio instabile su direzioni ortogonali.
Più carne invece nel lavoro di Federica Dauri. Kheperer sembra aver preso le mosse (almeno quelle teoriche) dalla Metamorfosi di Kafka. La danzatrice fa del suo corpo il confine tra l’insetto e l’animale. Sotto un plexiglas la sua nudità raccoglie la luce portata per farne ombra propria che scolpisce anfratti di muscoli piegati all’orizzontale. Anche qui i riferimenti si sprecano, da Rodin a Burroughs. Lo sguardo arriva in ritardo, sosta più sulla scultura che sul corpo che prende una forma per gli occhi, distribuendo tronconi di una classicità monca. D’altronde il nudo è una questione di sguardi, diceva il buon Berger.

Simone Azzoni

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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