Danza Fuori Programma. Intervista a Valentina Marini

Dall’11 al 27 luglio, al Teatro Vascello di Roma, Fuori Programma, il Festival Internazionale di Danza, con la direzione artistica di Valentina Marini, prodotto da European Dance Alliance/Valentina Marini Management in collaborazione con Teatro Vascello, giunge alla sua terza edizione. Ne abbiamo parlato con la direttrice artistica.

Fuori Programma si caratterizza per la compresenza non solo di eccellenze nazionali e internazionali, ma anche per quella di tematiche calde: la convivenza tra arabi e ebrei (We love arabs di Hillel Kogan), il rapporto tra l’uomo e la natura (One. One & One della Vertigo Dance Company e Full Moon di Spellbound), tra madre e figli (Don’t Talk to me in my sleep di Dunja Jocic), la caducità della vita (La morte e la fanciulla di Abbondanza Bertoni), il conflitto tra bene e male (Corpo a Corpo di Roberto Zappalà).

Che potere ha secondo te un linguaggio astratto come la danza di raccontare il presente?
Mi piace pensare che la danza contemporanea debba sempre parlare del presente e rimettere in campo quella dialettica tra scena e pubblico oggi più che mai tremendamente necessaria. Una dialettica di confronto e capacità di affrontare temi attuali, allenando la nostra abilità percettiva a ricevere stimoli che siano portatori di suggestioni sane, di riflessioni umane, esistenziali, politiche ma anche, perché no, di una bellezza viva e attuale. Viviamo un’epoca che ci ha abituato a ragionare in una chiave pressoché di negazione, paura, difesa, al massimo distratti da una patina di intrattenimento edulcorato che ci anestetizza a tutto. La salvezza è forse nel rimetterci in relazione emozionale, grazie alla scena.

Ci parli un po’ delle proposte di questa edizione?
Le proposte di questa edizione raccolgono una serie di creazioni nuove per Roma, tra firme nazionali e internazionali, due di queste, Dunja Jocic e la Vertigo Dance Company, sono il frutto della collaborazione con altri prestigiosi contenitori come Bolzano Danza e Civitanova Danza.
L’autrice Dunja Jocic, di origine serba, ma olandese di adozione, presenta per la prima volta in Italia una sua creazione come coreografa in cui conferma il suo sguardo cinematografico verso la scena, una regia precisa e sensibile che restituisce un’onirica suggestione dei dialoghi tra Andy Warhol e la madre. Due lavori portano la firma di autori israeliani, Noa Werthiem e Hillel Kogan, il primo è One, One & One, un’indagine sul rapporto tra l’uomo, l’arte e la natura, il secondo è il piccolo capolavoro We love arabs, che con dissacrante ironia ci fa riflettere sul tema del diverso e della convivenza, un argomento purtroppo oggi da non sottovalutare nel nostro Paese.

Hillel Kogan, photo credit Maria Grazia Lenzini

Hillel Kogan, photo credit Maria Grazia Lenzini

E sul fronte italiano?
Nel panorama italiano la scelta è caduta su alcuni progetti di portata teatrale importante e di una forza comunicativa che andasse oltre il gesto tecnico: La morte e la fanciulla di Abbondanza Bertoni, struggente e poetico, meritatamente premiato come migliore produzione Danza&Danza nel 2017, Corpo a Corpo 1° Meditazione su Caino e Abele di Roberto Zappalà che, assieme al secondo studio, già presentato a maggio al Teatro Biblioteca Quarticciolo, completa per il pubblico romano i due capitoli di questo nuovo percorso di indagine dell’autore. Spellbound Contemporary Ballet porta sul palco del Vascello un debutto assoluto, l’ultimo lavoro di Mauro Astolfi. Un progetto intimista e lunare, che riaffida al corpo l’essenza di una scrittura coreografica restituita al pubblico dai nove eccellenti interpreti della compagnia. La rassegna non è solo spettacolo, abbiamo cercato, seppur nel piccolo, di rafforzare la relazione con la platea partendo da iniziative collaterali, come i laboratori con i coreografi, gli incontri di guida alla visione curati da “La casa dello spettatore” e i “walkabout” a cura di Carlo Infante, “esplorazioni partecipate” del quartiere Monteverde-Gianicolense, ma anche degli eventi del festival e delle percezioni che gli spettatori producono.

Il Festival Internazionale di Danza Fuori Programma è alla sua terza edizione, puoi fare un bilancio di questi anni? Com’è cambiata la scena della danza italiana negli ultimi anni a tuo avviso?
Il festival è nato da una idea del Teatro Vascello che ha prodotto e lanciato con coraggio la prima edizione. Lo scorso anno abbiamo immaginato una dimensione a quattro mani dove mi sono inserita collaborando alla programmazione artistica per cercare di allargare la maglia di azione. Da questa stagione ho rilevato la gestione del festival, sempre mantenendo lo spirito e la linea che lo ha fatto nascere, in seno a uno spazio romano che amo molto e che credo sia ormai tra i pochissimi che riesce a dare voce a una dimensione creativa contemporanea multiforme.
Sul tema della scena italiana ci sarebbe molto da dire. Di sicuro gli ultimi anni sono stati segnati da una maggiore attenzione ai linguaggi del contemporaneo, qualcosa si è mosso a favore delle nuove generazioni che oggi più facilmente trovano una sponda anche nei mercati internazionali.

Abbondanza Bertoni, photo Simone Cargnoni

Abbondanza Bertoni, photo Simone Cargnoni

Quali problematiche riscontri nel panorama italiano?
Quello che resta la spina nel fianco a mio avviso è, da un lato, l’ingessamento della burocrazia che, invece di snellire le procedure a favore di una dimensione più progettuale, insiste su una visione pluriennale e aziendale del concetto produttivo. Dall’altro la dicotomia intergenerazionale che scivola nell’equivoco della diretta proporzionalità tra la giovinezza anagrafica e la scontata innovatività della proposta. Sogno un mondo dove l’età non debba essere un paradigma assoluto e si lavori invece sugli autori in quanto tali. Credo che in questi ultimi anni la maggiore prova l’abbiano superata proprio loro, gli autori, rispondendo ai parametri più complicati per poter far circolare le proprie opere, riuscendo ad avviare compagini aperte per aiutare e aiutarsi in un mercato sempre più piegato alla legge degli incassi e delle scelte sicure. Ecco, quello che vorrei immaginare nei prossimi anni è che i programmatori condividano con gli autori questa propensione al rischio, che ci sia la capacità di mescolare e, talvolta, sbagliare. Spesso si paragona la creatività italiana con quella internazionale, inciampando nel facile errore di penalizzare i nostri. Per dare un giudizio onesto dovremmo mettere i nostri artisti nelle stesse condizioni economico burocratiche che vigono altrove. Scopriremmo allora quanta capacità abbiamo in casa! Ecco, affinché il privilegio di vivere un’epoca dove i confini tra i generi si assottigliano e le barriere sui formati diventano meno rigide non tramuti un valore in un limite, bisogna armarsi di ancora maggiore competenza e formazione globale per generare pensiero scenico critico.

Come immagini Fuori Programma tra cinque anni?
Intanto sogno che esista ancora! Quest’anno abbiamo avviato una campagna di crowdfunding, ancora in corso, per raccogliere economie a sostegno della manifestazione. Non è un mistero che progetti come questo vivono nel polmone d’acciaio dell’iniziativa privata, se non sostenuti da fondi pubblici adeguati. In una visione ottimista e positiva immagino questa come una manifestazione ponte tra i vari contenitori estivi italiani, che faccia della posizione geografica centrale un punto di forza per agevolare la diffusione su scala nazionale di spettacoli speciali, audaci, graffianti, che trovino nelle nostre estati un pubblico che li aspetta e che non si fa più aspettare.

Chiara Pirri

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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