Intimità e vanità. La danza secondo Angelin Preljocaj

“Un trait d’union” e “Still life”, un titolo storico e una novità presentati al Teatro Comunale di Ferrara. Due universi, due epoche del percorso artistico del coreografo franco-albanese, che rappresentano la dimensione intima e quella universale della sua danza.

Sorprende ancora, a distanza di quasi trent’anni. Avvince, serrato com’è, senza alcuna sbavatura, né cedimenti. Psicologico e acrobatico Un trait d’union di Angelin Preljocaj (Sucy-en-Brie, 1957) è perfetto nel suo equilibrismo di immagini che si sviluppano in una fluidità di movimenti, ora tesi, ora meccanici, condotti quasi interamente senza musica – tranne il Concerto per piano n.5 di Bach e sonorità contemporanee – che solo a tratti fa da partitura drammaturgica.
I due danzatori, uno in canottiera bianca, l’altro in camicia nera, ci conducono in un severo duetto maschile, un incontro casuale in cui, attorno a una poltrona ferma o maneggiata, si consuma la ricerca, il bisogno d’amore, di un’amicizia virile, forse per sfuggire alla solitudine, forse semplicemente come prova di esistenza, o necessità di anime “che stanno ancora cercando la loro “metà perduta”, il loro vero e assolutamente necessario complemento”, come lascia intendere lo stesso Preljocaj. Molti duetti maschili sono stati creati da diversi autori e le rappresentazioni di questo tema sono state conflittuali. C’è da dire che Un trait d’union di Preljocaj rimane un brano precursore ed è da annoverare tra i capolavori. Non a caso è entrato nel repertorio del Balletto dell’Opéra de Paris.

Angelin Preljocaj, Un trait d’union. Photo © Marco Caselli Nirmal

Angelin Preljocaj, Un trait d’union. Photo © Marco Caselli Nirmal

UNA DANZA POETICA

La relazione che s’instaura tra i due interpreti ha caratteri tempestosi ed esasperati. Dominio sull’altro e sottomissione, tenerezza e violenza, lotta, urti e strette caratterizzano il loro rapporto con al centro quella poltrona agita continuamente come spazio vitale e dove solo uno dei due alla fine siederà. I due si respingono e si attraggono, si fondono, si placano nella combattività, improvvisamente si rifiutano a vicenda, e tuttavia sembrano indispensabili l’uno all’altro. Come nel momento di attrazione in cui, uno dei due danzatori, steso supino a terra e rimanendo in posizione rigida, salta all’indietro ritrovandosi calamitato tra le braccia dell’altro ballerino. Nella scena in penombra con due lampade sospese che creano un’atmosfera intima, si dipana una danza vigorosamente poetica, fisicamente impegnativa, superba per tensione e interpretazione – bravissimi Battista Coissieu e Redi Shtylla del Ballet Preljocaj – con il più forte che si rivelerà alla fine essere il più debole, mentre l’altro, asserragliato sulla poltrona, dominerà la situazione.

Angelin Preljocaj, Still life. Photo © Marco Caselli Nirmal

Angelin Preljocaj, Still life. Photo © Marco Caselli Nirmal

STILL LIFE

Nome di punta della felice stagione Anni ‘80 della Nouvelle Danse francese, formatosi al verbo di Cunningham, a lungo danzatore nelle fila di Dominique Bagouet, quindi artefice della compagnia che porta il suo nome, il franco-albanese Preljocaj ha attraversato tre decenni consegnandoci, nel solco di una fervente ricerca che ha spaziato dal classico al moderno al postmodern, creazioni originali per libertà intellettuale, rigore tecnico e formalismo espressi in una danza sobria e vigorosa, musicale e tendenzialmente astratta, distillata in gesti puri, movimenti catturati in una rete di esattezze matematiche. Ritroviamo alcuni di questi elementi nella nuova creazione Still life – in prima nazionale al Teatro Comunale di Ferrara, nella serata a due titoli –, riflessione sulla vanitas dell’esistenza, sulla fragilità, il tempo, le passioni umane, la distruzione, la guerra e la morte. Evocando tutto questo attraverso una serie di oggetti ‒ tra cui il teschio, il gufo, la clessidra, il globo terrestre, la corona ‒, tenuti in mano e poi collocati in mostra sul fondo, i danzatori, su un ticchettio cronometrico alternato a musiche techno e alle sonorità di Alva Noto e Riyuchi Sakamoto, compongono numerose sequenze dai rimandi pittorici, umanistici e filosofici, per rappresentare la finitudine dell’esistenza. I corpi, inizialmente in piedi, poi sdraiati, si animano nei rettangoli di luce e nella semioscurità delle postazioni in cui siedono, avanzano o scompaiono, assumendo movimenti e posture mutevoli con intrecci morbidi scanditi tra peso e dinamica come il tempo che si allunga o si contrae. Sono linee nette, assoli impetuosi e duetti amorosi, gesti fluidi con scatti improvvisi, figurazioni dinamiche a terra, raggruppamenti da divinità induista. Sono quadri di scene dove dei cubi bianchi vengono indossati come maschere, o utilizzati per comporre un totem da cui fuoriescono braccia e gambe per poi sezionare a metà un corpo come in uno show di magia rivelando l’artificio. La sequenza finale è un campo di battaglia. Corpi trascinati come cadaveri mentre un guerriero è colto al ralenti nell’atto di estrarre una lunga spada, tagliare la testa di un avversario e trafiggere altri. Sarà, quello che ci lascia Preljocaj, il trionfo della Morte? Se non ha la concretezza materica ed espressiva di Jan Fabre, a cui richiama per il carattere tematico e oggettistico di “natura morta”, Still life possiede un nitore tecnico impeccabile e una rarefazione gestuale distillata di neoclassico che però, alla lunga, non riesce a creare emozioni. È questo un altro mondo di Preljocaj, irraggiungibile rispetto alla radicalità compositiva del magnifico Empty Moves.

Giuseppe Distefano

www.teatrocomunaleferrara.it/
www.preljocaj.org

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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