Nella prigione di Kenneth Brown. Al Teatro Due di Parma

Con la regia di Raffaele Esposito, ritorna il drammatico, scarno, crudo e violento testo di Kenneth Brown, portato in scena nel 1963 dal mitico Living Theatre, atto di denuncia della rigidità della struttura militaresca e della brutalità fisica e psicologica. Uno spettacolo sulle barbarie che l’uomo sa creare per controllare e piegare un altro uomo.

Si entra allineandosi in due file, accompagnati dentro un corridoio fino a disporsi su due speculari palchetti rialzati, delimitati da un reticolato che circonda una gabbia. Siamo dentro una sorta di hangar, in condizione di semioscurità. Nel silenzio totale udiamo dei passi lenti scanditi da dei rumori metallici. Al grido di “Sveglia!” si accendono le luci, e improvvisamente ci rendiamo conto di trovarci all’interno di una prigione, a spiare un manipolo di uomini agli ordini di tre carcerieri torturatori. Sdraiati su delle brande a castello, i reclusi vengono chiamati per numero e fatti alzare, obbligati a vestirsi velocemente per poi subito rispogliarsi per la perquisizione, poi costretti a praticare i bisogni giornalieri e l’igiene quotidiana in un angolo angusto, a rastrellare la stanza, a mangiare un pezzo di pane lanciato in bocca o buttato per terra, a fumare a comando anche senza sigaretta. Singolarmente o in branco, questi detenuti militari sono sottoposti a esercizi e azioni umilianti, a rispondere ai comandi urlando: “Sissignore, signore!” e a chiedere il permesso per poter varcare le linee bianche che, di volta in volta, vengono disegnate a terra per definire un ristretto percorso di movimenti intimidatori. E non c’è spazio per cedimenti emotivi, per fughe di pensiero, men che meno per ribellioni, anche se qualcuno le tenterà.

Kenneth Brown, The brig. Regia di Raffaele Esposito. Teatro Due, Parma 2017

Kenneth Brown, The brig. Regia di Raffaele Esposito. Teatro Due, Parma 2017

UN’OPERA CHE COLPISCE

Le vessazioni, in un regime carcerario violento, fatto di schiavitù micidiale e di corvée, hanno lo scopo di spersonalizzare i detenuti, di demolirli nella psiche, di ridurli a cavie umane senza dignità, finché loro stessi vedranno in questa disciplina disumana, portatrice di paure e rimozioni ancestrali, l’unica via di sopravvivenza. Eccola la maledetta dozzina: personaggi che vivono sulla pelle l’inferno di un manuale dei Marines, storia di denuncia già messa in scena dal leggendario Living Theatre nel 1963. L’autore del testo, Kennneth H. Brown, scontò una pena infame in Giappone per volere degli alti gradi militari del suo Paese. The brig fece epoca e girò il mondo a più riprese (in Italia ricordiamo anche la sconvolgente prova della Compagnia della Fortezza, del carcere di Volterra, diretta da Armando Punzo, nel 1994). Fu un cavallo di battaglia del Living di Julian Beck e Judith Malina, un teatro il cui valore andava ben oltre la scena estendendosi alla politica, al costume e a tutte le forme della vita sociale.

Kenneth Brown, The brig. Regia di Raffaele Esposito. Teatro Due, Parma 2017

Kenneth Brown, The brig. Regia di Raffaele Esposito. Teatro Due, Parma 2017

LA PROVA DI ESPOSITO

A reinterpretare ora questo testo leggendario, quest’opera artaudiana, la cui crudeltà di corpi ridotti a larve mostra il sordo catalogo di punizioni e spersonalizzazioni cui può fare ricorso una democrazia dal pugno duro, è Raffaele Esposito, attore di lunga attività ronconiana, qui alla sua prima prova registica. A chiamarlo alla prova è il prestigioso Teatro Due di Parma, istituzione che vanta scelte progettuali innovative. Ne è prova La prigione (The brig), che Esposito ha riprodotto fedelmente e con partecipazione, selezionando un manipolo di giovani attori sottoposti a un lungo e faticoso training preparatorio per dar vita a una storia – seppur priva di una vera trama – che non concede tregua, che vive di scansione matematica, di respiri all’unisono, di sguardi attenti, di fisicità che si accorda con l’anima. Un testo la cui brutalità e annientamento psicologico richiamano aspetti subdoli del nostro presente. E impressiona il senso di violenza e di sofferenza che giunge a noi come un pugno allo stomaco, in una dimensione di coesistenza tra attori e spettatori in una stessa gabbia comunicante (sono da menzionare tutti i generosi interpreti: Luca Cicolella, Lucio De Francesco, Luca Filippi, Lorenzo Frediani, Gabriele Gattini Bernabò, Michele Lisi, Dino Lopardo, Alessandro Maione, Nicola Nicchi, Massimo Nicolini, Gian Marco Pellecchia, Gabriele Pestilli). “Il testo di Brown ci riguarda ancora, nel nostro presente” – chiosa il regista. “Come metafora, come riflessione sul meccanismo di autocoercizione in base al quale ci si adatta all’implacabile macchina del vivere quotidiano in cui ciascuno perde la sua identità, la sua voce. Il testo ci dice che quella prigione non è altrove, ma siamo noi”.

Giuseppe Distefano

www.teatrodue.org

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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