Intervista immaginaria alla macchina fotografica di Michelangelo Antonioni in Blow Up

Dopo l’intervista al Monocromo blu di Yves Klein, diamo la parola alla macchina fotografica di Michelangelo Antonioni in “Blow up”.

Con la riapertura delle sale di proiezione e dei cinema a fine quarantena, il Comune di Milano organizza un fitto calendario di incontri finalizzati alla promozione delle pellicole che hanno fatto la storia del cinema italiano. Durante il ciclo dedicato alle proiezioni degli Anni Sessanta viene intervistata una delle macchine fotografiche più famose della storia del cinema, protagonista della misteriosa vicenda narrata dal regista Michelangelo Antonioni in Blow Up (1966).

Come si trova a lavorare con il suo collaboratore Thomas?
Devo ammettere che non è male, tra tutti i soci che ho avuto è sicuramente il più lunatico, imprevedibile e folle, ma mi diverto abbastanza a spaziare e muovermi dai vecchi e sporchi dormitori per senzatetto alle location di lusso del mondo del fashion.

È più interessata alle immagini crude e documentarie che Thomas realizza o a quelle più patinate, legate a quello che lei ha definito “mondo del fashion”?
A essere onesta, a costo di sembrare impopolare, la moda mi piace molto di più perché in questo contesto si può raccontare ciò che si vuole più liberamente, tutto è concesso perché tutto è finto e artefatto.

E la verità?
Ma smettiamola con questa convinzione che la fotografia debba raccontare la verità, documentare il mondo come traccia indelebile di ciò che accade, funzionare come testimonianza dei fatti ed essere un testimone oculare oggettivo. Stronzate! La fotografia è tutto meno che questo e io non lavoro così. Più sento questa storia e più cerco di creare immagini ambigue e destabilizzanti, che mettano in dubbio la veridicità di ciò che imprimo sul negativo del rullino.

La sua è una visione molto netta… Mi dica di più.
Mi aiuta molto il fatto che Thomas preferisce scattare a colori, perché in questo modo il risultato che otteniamo si avvicina ancora di più al reale ma è estremamente diverso da questo. Come diceva il buon vecchio Flusser a proposito del mio lavoro: “Il prato fotografato in verde è più astratto di quello in grigio”. La fotografia in bianco e nero mostra ancora una differenza con la realtà, mentre quella a colori, che io prediligo, mette in campo una serie di codificazioni più ambigue e complesse, e quanto mi piace destabilizzare chi guarda!

Quindi, quando Thomas l’ha portata in giro alla ricerca di qualcosa di inedito da catturare e vi siete imbattuti nella lite tra gli amanti al parco, è stato forse noioso per lei svolgere quel ruolo.
Dipende tutto da come la vede. Sa, quando si parla di fotografia, anche un’immagine apparentemente documentaria può essere completamente costruita e fasulla. Non è detto che siccome non ci sono luci da studio preimpostate, fondale e modella in posa allora debba essere preso per vero ciò che io registro. Al contrario, mi sono molto divertita a scattare quelle immagini, sapevo che avrei messo in crisi Thomas stesso, che pensa di conoscermi così bene da fidarsi ciecamente di me e affidare la sua percezione al mio lavoro.

Da quel che lei dice, nutre un sentimento ambivalente nei confronti dell’uomo, e soprattutto dell’uomo in quanto fotografo.
Più l’uomo fa affidamento su di me, in quanto mezzo meccanico e quindi presumibilmente infallibile, più mi innervosisco e creo caos. Ha visto quanto ha litigato Thomas con la ragazza che si è resa conto di essere stata colta in flagrante al parco con il suo amante?
Lui era così convinto che io avessi realizzato un lavoro diverso e inedito rispetto al solito, che addirittura ha trovato un escamotage per consegnarle un rullino fake! Pensi lei quanto contava su di me!

E come si è sentita quando Thomas, finito un rullino, si è appropriato di ciò che lei in parte ha prodotto, lasciandola completamente priva di una parte di sé?
Questo è un processo che avviene quasi quotidianamente tra me e Thomas, e francamente ormai ci ho fatto l’abitudine. Ma, se devo dirle la verità, ancora oggi, ogni tanto, mi innervosisce essere usata e poi abbandonata in un angolo fino a che non ci sarà qualcosa di nuovo da fare. Allora, quando non sono dell’umore giusto per accettare questo tipo di rapporto, faccio dei piccoli dispetti, nulla di così perfido eh, solo inezie che riescono a mettere in crisi non più solo chi guarda il mio lavoro, ma soprattutto (e mi creda la cosa è ancora più soddisfacente) chi lo realizza.

Notevole.
Thomas è così convinto di sapermi maneggiare e di conoscere ogni minimo aspetto del mio funzionamento, che a volte mi dà per scontata e si è convinto che io sia come una sua appendice, credenza molto diffusa tra i fotografi. La verità invece è che è in corso una sfida continua tra noi, lui pensa di usarmi a suo piacimento e io la maggior parte delle volte glielo lascio credere, ma poi non sa molto di come io mi muovo per scattare le fotografie che lui vuole realizzare.

Mi saprebbe spiegare meglio cosa intende?
Lui sistema la messa a fuoco, i tempi, il diaframma, gli ISO, e quando sente il “click” dello specchio si tranquillizza perché sa che qualcosa è successo, ma non sa bene cosa. Solo io so cosa succede dentro di me e questo mi dà potere, anche se lui non ci pensa per nulla. Abbiamo questo tacito accordo per cui io lo lascio fare senza oppormi, ma ogni volta che pensa di avere il controllo faccio in modo di ricordargli che non è proprio così.

Interessante questa visione… lei assiste generalmente allo sviluppo delle immagini che realizza con il suo collaboratore? E in questo caso ha assistito?
Come le dicevo, la maggior parte delle volte, quando Thomas finisce il rullino e lo sviluppa si muove così: mi prende, riavvolge la bobina, la estrae e poi mi molla in qualche angolo della camera oscura fino a che non gli viene l’ispirazione per fare nuovi scatti. Questo implica che spesso io non venga coinvolta e considerata nel processo di sviluppo delle fotografie. A volte, però, ho la fortuna di essere sistemata in punti strategici dello studio e di riuscire a vedere tutto da una prospettiva privilegiata, anche se il mio interesse si rivolge sempre alla reazione di Thomas dopo che vede il risultato finale più che a ciò che effettivamente emerge dalle impressioni che compio.
Nel caso dello sviluppo delle fotografie relative alla lite tra gli amanti, Thomas mi aveva lasciata su un tavolo vicino all’ingresso dello studio, per cui non ho fatto parte del processo di sviluppo ma mi sono goduta tutta la lite tra lui e la ragazza che cercava di ottenere il rullino che avevo prodotto come prova della relazione clandestina.

Aspettava anche lei che lo sviluppo del rullino portasse a galla una verità segreta o lei era già a conoscenza di ciò che sarebbe emerso da quei negativi?
Secondo lei?

Non so, il suo atteggiamento mi fa credere che lei sappia molto di più di ciò che vuole far credere.
A differenza di Thomas, che si affida completamente a me e non può vedere né conoscere il risultato finale fino a quando non conclude e sviluppa il rullino, io so da subito ciò che viene impressionato sopra a ogni granello dei sali d’argento sulla pellicola. Dunque, partecipare o no al processo di sviluppo non mi cambia granché la vita.
In questo caso non aspettavo nessuna verità rivelata e nessuna epifania, semplicemente perché sapevo già quello che sarebbe emerso da quelle immagini, ed ero consapevole che avrebbero creato un gran scompiglio. Ma, come sempre, siccome io sono solo una macchina fotografica, me ne sono stata in disparte e ho lasciato che fosse lui a sbrigarsela. Capisce cosa intendo quando dico che ho potere?

Potremmo dire che ha esercitato il suo potere, stando in disparte e tentando di sfuggire alla volontà del fotografo con questa vicenda degli amanti?
Potremmo dirlo senza dubbio, sì.

Quando Thomas ha sviluppato le foto, più ingrandiva le stampe e meno comprendeva, pensa che sia una coincidenza o c’è il suo zampino?
Cosa vuole che le dica? Lei cosa preferirebbe? Illudersi che è una coincidenza dovuta a un mio improvviso malfunzionamento e che l’uomo a volte deve accettare che le sue appendici falliscano, o sapere che affidandosi a un mezzo esterno e delegando dunque una competenza, perde il suo potere rischiando di fallire lui stesso?

Insomma, ciò che lei ha ripreso è accaduto veramente oppure no? E ciò che lui ha visto ma che non ha immortalato è accaduto oppure no?
Non mi occupo di questo, io sono solamente ciò che l’uomo vuole che io sia, ovvero un mezzo di cui si serve. Di conseguenza, attenendomi a questa visione di me, mi limito a eseguire gli ordini che mi vengono dati. Dovrebbe fare a Thomas queste domande, anche se mi pare di ricordare che in quel contesto la sua percezione abbia fallito miseramente.

Lucrezia Costa

Intervista elaborata nell’ambito del corso di Critical Writing I, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2019/2020

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