Cinema d’animazione. La Tartue rouge

Affronta l’atavico tema del legame fra uomo e natura il primo lungometraggio dell’olandese Michaël Dudok de Wit. E conquista il pubblico con una trama semplice ma di grande intensità.

Il mare in tempesta. Gonfio, scuro, furibondo. Un uomo travolto dai flutti e da un destino inatteso. Un naufragio. L’approdo su un’isola deserta. Il risveglio. E l’istinto alla vita.
Non si sa da dove arrivi, il protagonista de La tartaruga rossa (La Tartue rouge), esordio nel lungometraggio dell’olandese Michaël Dudok de Wit prodotto dallo Studio Ghibli (in coproduzione con le francesi Prima Linea Productions, Why Not Production e Wild Bunch) e disponibile dal 6 luglio in blu ray e dvd, dopo aver conquistato il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard e una nomination agli Oscar nella categoria animazione. Non si conosce il suo nome né quale sia il suo passato. Eppure ne condividiamo la solitudine, il senso di angoscia, lo sgomento, l’unico ossessionante obiettivo: riuscire a oltrepassare la linea dell’orizzonte.
Dopo aver più volte fallito la fuga in mare a bordo di rudimentali zattere, l’uomo si dispera ma non si rassegna. E man mano che la speranza si affievolisce, cresce la rabbia. La rabbia cieca di chi, impotente di fronte agli elementi, non riesce a piegare la Natura al suo volere. L’ennesimo insuccesso spinge l’uomo a imprecare contro il cielo, il mare e una grande tartaruga rossa che con caparbia ostinazione gli impedisce di abbandonare l’isola. Ancora non sa che un avvenimento “magico” sta per cambiare il corso degli eventi: un imprevisto, il fato, il destino, un incontro inaspettato che determinerà non tanto il capovolgimento della sorte, quanto dello stato d’animo con cui accettarla. Allora ciò che prima sembrava intollerabile e presagio di morte, finalmente racchiude il senso della vita.

L’UOMO E LA NATURA

La tartaruga rossa è un’opera semplice (al limite del semplicistico), minimale quanto un haiku, in cui si osserva il ciclo della vita attraverso le sue tappe. Disegnato quasi interamente a mano con un tratto sottile che permette al colore di dominare la scena (il blu – ma anche il grigio – di cielo e mare, il verde della vegetazione, l’oro della sabbia) è un felice punto d’incontro tra scuole di animazione (Giappone e Francia) ma anche di mentalità contrapposte: da una parte una visione occidentale dell’uomo, con la sua illusione di poter controllare gli eventi; dall’altra un approccio quasi buddista, dove la Natura obbedisce alle proprie leggi e agisce indisturbata, secondo un disegno più grande.
L’influenza dello Studio Ghibli, che ha deciso di sostenere il lavoro del regista olandese – autore di due corti già apprezzati come The Monk and the Fish e Father and Daughter –, è riconoscibile nell’afflato magico e nella presenza di piccole creaturine animali (i granchietti che ricordano i “nerini del buio”), così come da una certa spiritualità “orientale” deriva la matrice contemplativa, la circolarità del tempo, l’imprevedibilità della Natura che può scagliarsi contro l’uomo con la forza di uno tsunami. Nei suoi tratti essenziali, Michaël Dudok de Wit condensa un breve trattato di filosofia e ci mette di fronte all’evidenza del fatto che “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Beatrice Fiorentino

Francia/Belgio, 2016 | 81’ | regia: Michaël Dudok de Wit

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38

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Beatrice Fiorentino

Beatrice Fiorentino

Giornalista freelance e critico cinematografico, scrive per la pagina di Cultura e Spettacoli del quotidiano Il Piccolo e per diverse testate online. Dal 2008 collabora con l'Università del Litorale di Capodistria, dove insegna Linguaggio cinematografico e audiovisivo. Dal 2015 cura…

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