La Porta Portese del luogo comune: arte presunta incomprensibile, romani cafoni, vernacolo approssimativo. L’arte spiegata ai Truzzi spopola sul web…

Non è questione di essere poco ironici, anzi: è proprio se hai il gusto del lazzo, del motto, della battuta di spirito che alzi di giorno in giorno il tuo standard e ti aspetti, sempre, di ridere e divertirti per qualcosa per cui valga la pena. Non è questione di snobismo, dunque, se si resta […]

Non è questione di essere poco ironici, anzi: è proprio se hai il gusto del lazzo, del motto, della battuta di spirito che alzi di giorno in giorno il tuo standard e ti aspetti, sempre, di ridere e divertirti per qualcosa per cui valga la pena. Non è questione di snobismo, dunque, se si resta senza parola davanti a L’arte spiegata ai Truzzi (nella loro lingua), blog firmato dalla romana Paola Guagliumi, che sintetizza la propria esperienza come guida turistica in un bigino di storia dell’arte che vorrebbe essere ad uso e consumo dei semplici e, allo stesso tempo, divertissement per chi qualche rudimento già ce l’ha. Il risultato valutatelo da voi: ma l’impressione è che i motivi per farsi venire l’orticaria siano almeno tre.
Il primo: davvero l’arte è così incomprensibile, così oscura, così lontana dal comune sentire da necessitare una traduzione per gonzi? Un conto è spiegare all’uomo della strada una performance di Beuys, o trascinarlo a spasso per Villa Panza e cercare di spiegargli che tutti quei neon non sono semplici alternative alle alogene. Ma cui prodest – oppure: che je frega – alla gente della lezioncina simil-smart su Degas, Tiziano, Caravaggio e soci? Roba che basta Wikipedia per recepirla in modo potabile, facile e veloce.
Il secondo: piantiamola con questa storia del romano burino, cafone, ignorante, coatto. Possibile che non si esca da cliché che spaziano dagli Aristogatti di Romeo “er mejo der Colosseo” fino ai peti e gli schiaffoni sonorizzati di Bombolo e Tomas Milian? Se Er Piotta e i Flaminio Maphia non sfornano un disco accettabile da oltre dieci anni; se a Martufello non sono rimaste che le pubblicità su canali di quart’ordine; se nella faida dei cinepanettoni Enzo Salvi è finito nella squadra perdente – quella di Boldi –  significa che, evidentemente, la vena aurifera del dileggio del gonzo è bella che esaurita. Abbiamo venti regioni in Italia: coglioniamo qualcun altro.
Il terzo: il vernacolo è lingua parlata, metterla su carta è sempre difficile. Ma ancora più difficile è renderlo davvero incomprensibile. Basta una guardata a Trilussa, uno che ti insegnano anche a scuola – e anche a nord del Rubicone – per sapere che l’affricativa postalveolare sorda, altrimenti nota come la c dolce che usi ogni giorno in parole come “cielo”, si scrive con il segno c. E basta. A Roma magari la trascinano un po’, ma persino Spartaco Sacchi, davanti alla parola sci non può fare a meno di pensare a neve e racchette. No?

– Francesco Sala

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Francesco Sala

Francesco Sala

Francesco Sala è nato un mesetto dopo la vittoria dei mondiali. Quelli fichi contro la Germania: non quelli ai rigori contro la Francia. Lo ha fatto (nascere) a Voghera, il che lo rende compaesano di Alberto Arbasino, del papà di…

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