Confessioni d’autore. Alberto Giacometti e il sogno di una testa

Un frammento da un celebre documentario dedicato, negli anni Sessanta, ad Alberto Giacometti. L’autore si racconta, con poche parole rivelatrici, e poi in un testo autografo. A emergere sono la fatica, la spinta vitale e la disperazione di un artista sempre in cerca.

IL FALLIMENTO COME CONDIZIONE VITALE
Il genio allo specchio. Con tutta la genuinità e il tormento, la consapevolezza e lo slancio, che sono dell’infaticabile cercatore di forme. “Io vorrei fare teste normali, figure normali, ma non ci riesco”. Alberto Giacometti si racconta ne Il sogno di una testa, documentario in sei capitoli prodotto nel 1963 dalla TSI (Televisione svizzera italiana), firmato da Giorgio Soavi e Grytzko Mascioni, con Sergio Genni a condurre il dialogo.
In un passaggio particolarmente affascinante, Giacometti si concentra sul concetto di fallimento. E indica una data, come cruciale. “Dal 1935 in poi non ho mai fatto una cosa come volevo. È sempre uscita unaltra cosa rispetto a quello che volevo. Sempre”. La volontà tradita, lo sforzo verso una “normalità” che non arriva. È quello l’anno della rottura, la più importante: Giacometti – che fu protagonista di una stagione culturale fervida, insieme a intellettuali come Sartre, Breton, Bataille – abbandona il gruppo surrealista, con cui aveva condiviso un’esperienza profonda, dal punto di vista dell’esplorazione di sé e della rivoluzione del linguaggio. Un viaggio oltre il reale, lungo i sentieri dell’inconscio, in direzione di un orizzonte inaccessibile. In quegli anni fiorirono le sue sculture fatte di simboli, di teatrini metafisici, di presenze-assenze, di oggetti dalla valenza sessuale, ancestrale, spirituale. Nel solco dell’invisibilità.
Ed è solo dopo la frattura con i suoi compagni, che inizia il periodo dell’isolamento e del ritorno. Tornare alla figura, alla pura presenza, al mondo delle cose: un’urgenza progressiva.

Alberto Giacometti at the 31° Venice Biennale in 1962, photographed by Paolo Monti (Fondo Paolo Monti, BEIC)

Alberto Giacometti at the 31° Venice Biennale in 1962, photographed by Paolo Monti (Fondo Paolo Monti, BEIC)

CERCANDO L’ESSERE, IN UNA TESTA
Ma Giacometti – certamente cambiato dall’esperienza surrealista, influenzato dal pensiero esistenzialista e mai accontentatosi di un realismo fatto di mimesi e di narrazione – quel desiderio di realtà non lo placò mai. La forza del suo lavoro è in questa fatica quotidiana, in questa angoscia dello smacco, in quest’utopia mancata. Là dove l’utopia non era altro che la sfida della concretezza, una sorta di verità visibile. Le silhouette lacerate, allungate, tormentate, corrose, generate da una disarticolazione fluida della materia e dall’esercizio ossessivo dello sguardo, erano la misura di tale tensione esistenziale. Un doppio differente.
Vorrei riuscire una volta a fare una testa come la vedo”. In questo spazio illimitato tra l’oggetto reale e l’oggetto percepito, c’è la potenza beffarda dell’arte, che tutto trasmuta, risuona e rilancia, scavando nuove porzioni di mondo dentro al mondo stesso. L’occhio che vede non coincide col pensiero che esplora, inquieto. E così ogni opera, anche la meglio riuscita, non è che la testimonianza di un fallimento nuovo; e lo spunto per proseguire. L’altrove si impone, l’identico si sfalda, la forma si verticalizza, precipita, decolla. Niente sarà mai come quel che è davvero. Fuori da questo gap, da questo scontento, non ci sarebbe arte.

Una testa di Alberto Giacometti - Nasher Sculpture Center, San Diego, Texas - ph. Thomas Hawk via Flickr

Una testa di Alberto Giacometti – Nasher Sculpture Center, San Diego, Texas – ph. Thomas Hawk via Flickr

Ma lei“, chiede a un certo punto l’intervistatore, “non è mai tentato di tornare alla sua prima maniera?”. In effetti, suonerebbe come la via più facile. E invece no, risponde lui. “Sarebbe solo una ripetizione, qualcosa che non minteressa più”. E si tratta di cercare cose semplici, “normali”. Una testa, ad esempio. L’ossessione suprema, superba. “Più la vedo, più diventa difficile realizzarla”. Ipervisione prolungata e profonda. Tanto che l’eccesso di realtà (o di razionalità) diventa allucinazione. Troppo facile – confessa – riprodurre un corpo che cammina, studiare l’equilibrio, il movimento. Quello che sfugge è immobile, complesso, è l’oggetto enigmatico per eccellenza. La testa diventa punto di domanda focale intorno all’essere, il nodo da sciogliere per capire come si incarni, nella materia, l’unicità del soggetto. Ontologia del negativo, provando a catturare ciò che si sottrae, che si ritira. Quel residuo di visione in cui la materia è già trasfigurata. E intorno, il vuoto.

Robert Doisneau - Alberto Giacometti in his studio in Paris - ph. Cea+ via Flickr

Robert Doisneau – Alberto Giacometti in his studio in Paris – ph. Cea+ via Flickr

LA MIA REALTÀ
In chiusura, la lettura di un testo firmato da Giacometti stesso. Confessione decisiva e manifesto straordinario, questa breve prosa dal titolo La mia realtà appare come una scrittura universale. Una pagina in cui tutta l’arte, in qualche modo, potrebbe ritrovarsi. Vita, morte, conflitto, perdita, conquista, resistenza e disperazione, di chi racconta l’unica verità possibile. Fare arte per sopportare il mondo, per celebrarlo, per decodificarlo. E per sopravvivere.
Certo, io faccio pittura e scultura e questo da sempre, dalla prima volta che ho disegnato o dipinto, per mordere la realtà, per difendermi, per nutrirmi, per crescere; crescere per meglio difendermi, per meglio attaccare, per fare più presa, per avanzare il più possibile su tutti i piani, in tutte le direzioni, per difendermi contro la fame, contro il freddo, contro la morte, per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare coi mezzi che oggi mi sono propri di vedere meglio, di capire meglio quel che mi circonda; di capi­ re meglio per essere il più libero, il più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per correre la mia avventura, per scoprire nuovi mondi, per combattere la mia guerra, per il piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e di perdere”.

– Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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