Cespiti (X). La trappola della simulazione

L’ultimo capitolo della serie “Cespiti” riannoda i fili di una retorica sempre più contemporanea, quella della simulazione. Apparente antidoto al timore del fallimento.

Life is not a series of gig lamps symmetrically arranged;
life is a luminous halo, a semi-transparent envelop
surrounding us from the beginning of consciousness to the end.
Virginia Woolf, Modern fiction (1919-21)

Stiamo ancora iniettando dosi potenti di retorica nel nostro immaginario – siamo ammalati, come sempre, di retorica.  La retorica come distanza e filtro e schermo rispetto a quello che percepiamo e pensiamo – come un gigantesco selfie mentale che intrappola e incastra la rappresentazione culturale.
(Davvero è come se non avessimo mai davvero imparato come si aggancia il pensiero all’azione, il racconto alla trasformazione effettiva del mondo. Dei corpi, delle relazioni, dei rapporti: di ciò che noi facciamo insieme agli altri.)
Mi atteggio in questo modo, assumo questa posa – e, nel farlo, mi impedisco di fatto di vivere e di esperire e di dire questa vita e questa esperienza nel modo più efficace. Sono sempre dentro uno spettacolo, voglio essere dentro lo spettacolo, non voglio anzi che smetta mai il mio spettacolo, il nostro spettacolo, in cui siamo tutti belli e fighi e desiderati e di successo e tutto va bene, sempre meglio, e non c’è spazio per fallimento dolore rimorso rischio crisi indietreggiamenti deviazioni – la verità resta immancabilmente fuori: sei il numero uno – sei un grandeeeeeeeeee – e il sogno diventa realtà.
La simulazione è del resto per noi italiani una condizione secolare, atavica: è qualcosa che ha a che fare – moltissimo – con il Seicento, con il Barocco, con la Controriforma, con la commedia dell’arte, con il melodramma. Da circa quattro secoli e mezzo, la nostra vita individuale e collettiva si svolge sempre e comunque nel territorio della rappresentazione, della teatralità, della finzione. Della maschera: “La non-volontà di conoscersi degli ‘italiani’ è strettamente legata ad un altrettanto forte bisogno di una maschera. Mettersi in maschera significa non solo nascondersi dietro una maschera, ma attribuire alla maschera il compito di rappresentarci. La maschera diventa l’intermediario, l’altro io interposto tra noi e gli altri. (…) la maschera consente sempre all’io che c’è dietro un’ultima riserva, gli consente sempre al momento buono di sganciarsi, di dissociarsi, di ritirarsi dal gioco e di non identificarsi più con quello che fa. Di prendere le distanze, insomma, e dunque di sentirsi non-responsabile (Raffaele La Capria, Il sentimento della letteratura, Mondadori 2011, pp. 238-239).

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Marcello Ruvidotti, Gioia Tauro, 2015 - OIGO-The Third Island, PlanarBooks

Marcello Ruvidotti, Gioia Tauro, 2015 – OIGO-The Third Island, PlanarBooks

Dunque, vediamo un po’. I cespiti sono stati finora: In Utero (1993) dei Nirvana – i riusi del patrimonio edilizio già “servito” – l’insegna di un barbiere di Pozzallo, SALA DA BARBA – il foglietto dei ragazzi neri trattenuti nell’hotspot – il contesto a cui si riferisce e in cui vive immersa ogni opera d’arte – Calais e A Calais di Emmanuel Carrère – l’accettazione della fragilità – il lampo sugli occhiali da sole a goccia di un poliziotto a Bologna – i listelli bianchi di legno, veri e propri “moduli”, che ricoprono le pareti interne dei negozi cinesi di Piazza Vittorio a Roma – la pace di San Carlo alle Quattro Fontane e un matto inglese nella metro – l’immensa natura morta italiana di Anna Maria Ortese – un palazzone verdastro sulla sinistra nella piazza della stazione di Taranto – l’architettura “brutalista” calabrese – la cartolina di Nick Celentano all’Hotel Mommo di Polistena – una bella fontana odorosa al centro della piazza di S. Giorgio Morgeto e una terrazza affacciata sulla valle.

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Antonio Ottomanelli, Porto di Gioia Tauro, 2015 - OIGO-The Third Island, PlanarBooks

Antonio Ottomanelli, Porto di Gioia Tauro, 2015 – OIGO-The Third Island, PlanarBooks

L’ultimo cespite è questo.
Lui, Troya è un uomo sui cinquant’anni, ma ne dimostra meno. La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso. Colpisce, prima di tutto, perché si sente subito che è un sorriso divenuto stereotipo. […] Troya, cioè, sorridendo furbescamente, voleva far sapere ininterrottamente, senza soluzione di continuità, e a tutti che lui era furbo. […] Non amava assolutamente nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare nell’ombra, e infatti ci restava […] Si sapeva che girava con una macchina, una Citroën verde, non intestata nemmeno a lui (che dunque non era possessore nemmeno di una modesta Citroën); e si sapeva anche che faceva raccolta di oggetti in ceramica bianca (cosa che dava l’aria di piccoli cimiteri a certi tavolini, non certo pezzi rari d’antiquariato, della sua casa e anche del suo ufficio)” (Pier Paolo Pasolini, Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, in Petrolio, Einaudi 1992, pp. 94-96).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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