Il silenzio, il rumore, la danza. A Genova

La settima edizione del Festival “Testimonianze ricerca azioni”, curato da Teatro Akropolis, ha ospitato un dittico di danza del tutto contrastante. Alcune note e una domanda finale.

UN FESTIVAL ARTICOLATO
Quello voluto da sette anni da Teatro Akropolis a Genova è un festival interessante per almeno due motivi. Il primo: la possibilità di un reale rapporto diretto e profondo con gli artisti coinvolti e con il loro percorso di ricerca, attraverso un’articolazione di incontri, seminari, occasioni informali. A differenza di altri festival, a Testimonianze ricerca azioni questi appuntamenti non sono di mero contorno ma equivalgono, anche numericamente, alle proposte performative. Scelta ancor più singolare, ogni anno la manifestazione è preceduta dalla pubblicazione di un vero e proprio volume “che raccoglie interventi teorici di approfondimento degli artisti, dei critici e degli intellettuali che partecipano al dibattito contemporaneo intorno al teatro e all’arte in genere”, come suggeriscono i direttori artistici Clemente Tafuri e David Beronio.
Secondo motivo di interesse: la programmazione in gran parte inusuale, che accoglie anche artisti mai (o quasi mai) presenti nei nostri cartelloni. È questo il caso degli autori dei due spettacoli di danza a cui si vuole accennare qui. Un accostamento pensato come una sorta di dittico, per affinità e divergenze sia tematiche che poetiche.

THORMANN E LA DANZA BUTOH
Lo svizzero Imre Thormann, per sette anni allievo diretto del co-fondatore della danza butoh Kazuo Ōno, ha presentato nei suggestivi spazi di Villa Rossi Martini la sua creazione in progress Enduring Freedom. La danza butoh, emersa in Giappone a fine Anni Cinquanta, è dilagata nel resto del mondo a contaminare diverse esperienze venti anni dopo: molti sono i coreografi anche contemporanei che, seppure non riconducibili a una diretta filiazione, ne recepiscono immagini, presupposti teorici ed esercizi preparatori. Il butoh “propone un corpo spesso esposto in una seminudità non erotica ma puramente oggettiva”, suggerisce la storica della danza Elena Cervellati, “anche grazie alla soppressione della distanza tra pensiero e azione, al fine di lasciare il campo libero a una sensibilità acuita e vigile”.
Di questa pre-condizione, necessaria e sostanziale, ha parlato Thormann nell’incontro organizzato dal festival il giorno precedente la presentazione di Enduring Freedom: “Il titolo evoca il nome delle operazioni militari avviate dagli Stati Uniti d’America dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. La condizione paradossale dell’affiancare guerra e libertà è il punto di partenza del mio lavoro, che tenta di attraversare la possibilità di sentirsi liberi pur nella piena consapevolezza del dolore, della morte, della sofferenza”.

Qudus Onikeku - photo Isabela Figueiredo

Qudus Onikeku – photo Isabela Figueiredo

CORPO AL CENTRO
Attorno a un rettangolo di neon bianchissimi a terra, unica illuminazione delle performance, siedono trenta spettatori silenziosi. Imre Thormann entra nello spazio scenico in abito scuro e cappello a tesa larga. Lentamente si spoglia, per iniziare una progressione di tensioni interne, linee spezzate, vigorosi colpi al pavimento, contorsioni segmentate. È un corpo arcaico, rurale, antico che propone e “racconta” niente altro che se stesso, che si offre in una condizione pre-umana (o forse iper-umana). Un organismo ferocemente nudo e vivo è l’origine e l’oggetto di questa esperienza performativa. Per dirla con Jean-Luc Nancy, nell’incipit del suo celebre Corpo teatro: “Ogni volta che vengo al mondo, ogni giorno quindi, le mie palpebre si aprono su quello che non si può chiamare uno spettacolo, perché subito sono preso, trascinato da tutte le forze del mio corpo che avanza in questo mondo, che ne incorpora lo spazio, le direzioni, le resistenze e le aperture, muovendosi in quella percezione di cui è soltanto il punto di vista a partire da cui si organizza quel percepire che è anche agire”.
Butoh come esperienza di apertura, dunque. Di svuotamento, di ascolto. Per l’artista, certo, e anche per lo spettatore, in virtù di una partecipazione cinestetica che il danzatore induce con asciutto rigore.
Al termine, Thormann si riveste adagio. Vestito-nudo-vestito: cultura-natura-cultura, nel silenzio. Una “fedeltà al silenzio” di cui parlano anche i direttori artistici di Testimonianze ricerca azioni nella prefazione al settimo volume di accompagnamento al Festival messa in questione dalla proposizione performativa successiva, My exile is in my head, del danzatore nigeriano Qudus Onikeku.

Qudus Onikeku - My Exile in My Head

Qudus Onikeku – My Exile in My Head

DANZA, HORROR VACUI E SILENZIO
Le precise coreografie elaborate dal prestante e preparato danzatore abitano uno spazio molto vicino al suolo: rotolamenti, spostamenti laterali a quattro zampe, ginocchia e schiena piegate. Lo spettacolo patisce di un affastellamento di segni che produce l’effetto di un ininterrotto “rumore”, incapace di arrivare alla necessaria sintesi: una giustapposizione di video-proiezioni, luci diverse, testi di matrice vagamente psicanalitica detti con enfasi da un’attrice e dal danzatore stesso (sia live che registrati), canti, urli e, su tutto, una danza a tratti acrobatica, sempre dimostrativa. L’effetto complessivo è quello di una danza che vorrebbe essere evocativa, finanche narrativa, ma la cui efficacia soccombe dinnanzi al disordine, all’eccesso, all’horror vacui.
Questo dittico, al fine, propone una interrogazione sul vuoto, sul silenzio. Cicaleccio interiore che si intreccia al frastuono del mondo, la quiete è una condizione al fondo realizzabile? O forse, come ha indicato John Cage con la celeberrima 4’33’’, è possibile unicamente accorgersi delle forme (sonore) in movimento dentro e attorno a noi e, infine, accoglierle?

Michele Pascarella

www.teatroakropolis.com

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Michele Pascarella

Michele Pascarella

Dal 1992 si occupa di teatro contemporaneo e tecniche di narrazione sotto la guida di noti maestri ravennati. Dal 2010 è studioso di arti performative, interessandosi in particolare delle rivoluzioni del Novecento e delle contaminazioni fra le diverse pratiche artistiche.

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