Surrealismo? No, Inceptionismo

Gli androidi sognano pecore elettriche? Se lo chiedeva il grande scrittore Philip K. Dick nel suo capolavoro del 1968, famoso per aver ispirato un film di culto come Blade Runner. Oggi Google prova a dare una risposta. E non è quella che ci aspettavamo...

Quando Google l’ha presentato, in un lungo post sul suo blog ufficiale, ha parlato di “Inceptionism, con riferimento al famoso film di Christopher Nolan del 2010. Il nuovo progetto, infatti, battezzato Deep Dream, ha molto a che fare con il mondo dell’immaginazione e dei sogni, esplorando un tema affascinante quanto complesso: la capacità delle macchine di interpretare le immagini.
Per cercare di comprendere meglio i meccanismi che governano questo processo, e le loro possibili implicazioni a livello percettivo e culturale, il team di Google ha “rovesciato” il funzionamento dell’algoritmo utilizzato per il riconoscimento automatico delle immagini, che è basato sulle cosiddette reti neurali – modellate a loro volta sul funzionamento del cervello umano – con risultati sorprendenti. Invece di chiedere al software di riconoscere il contenuto di un’immagine, gli hanno specificato cosa cercare (volti, animali, frutti) e successivamente di enfatizzare il risultato, accentuando sempre di più, strato dopo strato, le caratteristiche dell’immagine individuata. Ne risulta una galleria di visioni surreali, popolate da occhi, musi di animali, strane creature e una texture multicolore che ricorda l’immaginario psichedelico Anni Sessanta e Settanta. Non a caso, sono numerosi i commentatori che paragonano i “sogni” del software di Google alle visioni prodotte dal cervello umano sotto l’effetto di droghe allucinogene come l’LSD.

Inside an artificial brain from Johan Nordberg on Vimeo.

Ma aldilà dell’indubbio fascino scaturito da queste immagini, che ci accompagnano in uno straniante viaggio nei meandri dell’intelligenza artificiale, facendoci vagheggiare della possibilità che le macchine possiedano caratteristiche precipuamente umane come l’immaginazione, la creatività e l’attività subcosciente, il progetto rivela molte altre implicazioni. Innanzitutto, è interessante notare come i programmatori di Google abbiano adottato un approccio molto simile a quello utilizzato dagli artisti per cercare di comprendere meglio il funzionamento del software scritto da loro stessi, rovesciando il processo e indirizzando la macchina verso percorsi alternativi e illogici. Non hanno chiesto al computer di riconoscere un’immagine data, ma di crearne una nuova, sbagliando, di fatto, l’interpretazione del dato di partenza. In alcuni casi hanno persino innescato un loop, chiedendo al software di continuare a processare l’immagine all’infinito, generando vortici di follia multicolore.
Ancora più importante notare, poi, come il rilascio di un simile progetto (e del suo codice sorgente) abbia puntato l’attenzione del pubblico – anche quello meno specializzato – verso questioni importanti come la relazione fra l’intelligenza artificiale e la psicologia umana. In un momento storico come il nostro, in cui il tema dell’AI sembra tornare prepotentemente alla ribalta (basti pensare ai molti film usciti di recente, come Ex Machina, Chappie o la serie Black Mirror), Google Deep Dream rilancia domande cruciali: a che punto è esattamente la ricerca sull’intelligenza artificiale? Come e cosa vedono le macchine? Possiamo fidarci di loro? In cosa davvero ci somigliano e cosa non riusciamo a insegnargli?

Com’è facile immaginare, molti artisti sono rimasti colpiti dal progetto e lo stanno utilizzando per nuovi esperimenti (come l’americano Anthony Antonellis, che pone l’accento sull’aspetto kitsch dello “stile” di Deep Dream, o come il pittore turco C. M. Kosemen, che utilizza il codice per accentuare l’atmosfera surreale dei suoi già onirici dipinti), ma va detto che la ricerca sulle possibilità creative delle reti neurali è in realtà già in corso da decenni nel campo dell’arte generativa e della Software Art in generale. L’Inceptionismo, dunque, se non può certo aspirare al rango di movimento artistico, ha l’indubbio merito di aver stimolato l’immaginazione collettiva e il dibattito su un tema di grande rilevanza. Anche se, come sottolinea Antonellis, l’invasione di tanto cattivo gusto visivo sulle pagine di blog e social network può senz’altro risultare indigesta: “Google Deep Dream è la nostra punizione per non aver gradito i Google Glasses”.

Valentina Tanni

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #27

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Valentina Tanni è storica dell’arte, curatrice e docente; la sua ricerca è incentrata sul rapporto tra arte e tecnologia, con particolare attenzione alle culture del web. Insegna Digital Art al Politecnico di Milano e Culture Digitali alla Naba – Nuova…

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