Le domande della danza. Due giorni a Contemporanea Festival

Piccolo resoconto di quattro proposte performative di Virgilio Sieni, Marina Giovannini, Kinkaleri e Jérôme Bel e degli interrogativi che hanno portato con sé. Al Contemporanea Festival di Prato.

L’AUTUNNO PRATESE
Nell’ultimo fine settimana di settembre, a Prato sono accadute tre cose decisamente interessanti. La prima: ha avuto luogo il primo Forum dell’arte contemporanea italiana. La seconda: è stata inaugurata la sorprendente mostra Synchronicity. Contemporanei, da Lippi a Warhol. La terza: è iniziata la 13esima edizione di Contemporanea Festival. Le arti della scena.
Alcune brevi note sulle questioni stimolate da quattro diversissime proposizioni coreutiche in programma nella manifestazione diretta da Edoardo Donatini. Le prime tre (di Compagnia Virgilio Sieni, Letizia Renzini & Marina Giovannini e Kinkaleri) sono state ospitate nei nuovi spazi espositivi del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci nell’ambito di Time to move (una lunga serata con performance anche di Silvia Costa, Jacopo Jenna, Claudia Catarzi ed mk).

Contemporanea Festival 2015 - Letizia Renzini & Marina Giovannini, A drum is a woman - photo Ilaria Costanzo

Contemporanea Festival 2015 – Letizia Renzini & Marina Giovannini, A drum is a woman – photo Ilaria Costanzo

DANZATRICI IN ERBA E ANTROPOMETRIE
Nido di luce della Compagnia Butterfly Corner, una delle manifestazioni del pluriennale percorso di Virgilio Sieni con giovani e giovanissimi interpreti, vede protagoniste quattro danzatrici fra i 13 e i 16 anni. Colpisce la complessità della sincopata coreografia, eseguita con precisione su un grande tappeto da danza quadrato e bianco, circondato da un pubblico numeroso e attento. La qualità del segmentato movimento, i costumi di colori tenui e monocromi, i contrappunti sonori, le luci bianchissime: tutto rispecchia fedelmente il rigore e gli stilemi del coreografo fiorentino. Contestuale all’ammirazione sorge una domanda: qual è il confine tra la fedeltà a un proprio percorso e il manierismo? E, nello specifico di un lavoro che coinvolge queste pre-adolescenti: è stata ricercata un’altra via rispetto all’apprendimento di una téchne adulta?
Letizia Ronzini (ideazione, creazione, regia, suono) e Marina Giovannini (creazione, coreografia e interpretazione) hanno presentato A Drum is a Woman, performance che rilancia “le modalità della body painting, qui sostituita da una traccia organica, che diviene pittura grazie all’efficacia dei materiali e della tecnologia”. Giovannini si colora di nero il corpo che poi, interagendo con una musica sintetica e battente, appoggia ripetutamente a una lastra di plexiglas illuminata da led colorati. È una proposizione che si pone in bilico fra Anthropométrie di Yves Klein del 1960 e, sul finale in cui il pannello ruota e si presenta al pubblico come quadro, un’opera di Jackson Pollock. A Drum is a Woman è uno spettacolo perfetto per il contesto museale che lo ospita. Chissà se e quando il sistema produttivo del nostro Paese permetterà l’esistenza di ricerche coreografiche che nascono in organica e intenzionale relazione con tali luoghi della visione, come altrove accade da tempo (un esempio su tutti: La Substance, but in English di Mårten Spångberg, commissionato dal MoMA di New York e debuttato a gennaio 2014).

Contemporanea Festival 2015 - Jérôme Bel, Cédric Andrieux - photo Ilaria Costanzo

Contemporanea Festival 2015 – Jérôme Bel, Cédric Andrieux – photo Ilaria Costanzo

ATTI LINGUISTICI E VITA IN SCENA
Everyone gets lighter | All!, una delle tappe del pluriennale progetto di Kinkaleri, si propone come una “performance di trasmissione dell’alfabeto gestuale che dall’atto divulgativo diviene danza”. Marco Mazzoni, solo in scena, rovescia e rilancia quella che sessanta anni fa John L. Austin ha reso celebre come teoria degli atti linguistici: se il filosofo inglese nell’introdurre la nozione di performativo propone l’idea secondo la quale l’emissione di un enunciato è l’esecuzione di un’azione (serve, cioè, a fare), Kinkaleri compie il percorso esattamente inverso. Chissà se qualche docente universitario ha mai dato spazio, nei propri corsi, a questo exemplum divertente e divertito di rigorosa e al contempo fruibile indagine attorno alla filosofia del linguaggio.
Il giorno dopo il Teatro Fabbricone di Prato ha accolto Cédric Andrieux, assolo creato da Jérôme Bel per l’eponimo ballerino Cédric Andrieux. Il danzatore racconta la propria carriera: la formazione nella città di Brest e al Conservatorio Nazionale Superiore della Musica e della Danza di Parigi, il lavoro come performer nella compagnia di Merce Cunningham a New York e, recentemente, alla Lyon Opera Ballet. La proposta in sé non è certo nuova: da più di un secolo molti uomini e donne di scena fanno riferimento al proprio vissuto come materiale privilegiato per l’accesso a quella che Stanislavskij chiamava “condizione creativa”. Andrieux narra calmo molti aspetti feriali della propria esperienza: la noia delle infinite ripetizioni, il dolore alle anche, il frigorifero vuoto. Ogni tanto mostra piccoli esercizi e brevi spezzoni delle coreografie interpretate, sempre organici al racconto autobiografico. Sul finale ricorda la partecipazione a The show must go on di Jérôme Bel: “Indossiamo i nostri abiti di ogni giorno. Non facciamo quasi niente sul palco. Nessuno stress prima dello spettacolo, nessun riscaldamento. We are people before we are dancers. Ci sono canzoni, noi facciamo ciò che dice il testo”. Parte Every breath you take dei Police, si accendono le luci in sala. Andrieux è in piedi in proscenio e, semplicemente, guarda il pubblico. È un momento minuscolo e perfetto in cui con semplice efficacia si restituisce al teatro la propria origine: un luogo dello sguardo in cui le persone si incontrano. Vien da pensare a Jean-Luc Nancy: “Non c’è bisogno di ricorrere al senso greve di queste parole – ‘spettacolo’, ‘messinscena’ – e di pensare alle diverse parti, alle parate e alle fanfaronate, ai vari modi di esibirsi e di farsi notare, all’ostentazione e alle pose. Basta provare in maniera semplice e discreta che ciò che si chiama un ‘soggetto’ viene alla presenza, cioè ancora una volta alla ‘rappresentazione’, secondo il valore intensivo e in effetti originario e proprio della parola. In questo senso un soggetto è un corpo”.

Michele Pascarella

www.contemporaneafestival.it

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Michele Pascarella

Michele Pascarella

Dal 1992 si occupa di teatro contemporaneo e tecniche di narrazione sotto la guida di noti maestri ravennati. Dal 2010 è studioso di arti performative, interessandosi in particolare delle rivoluzioni del Novecento e delle contaminazioni fra le diverse pratiche artistiche.

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