Inpratica. Una sopravvivenza (III)

Un piccolo, spoglio, scabro sepolcro e la “infinita magnificenza e vastità dei monumenti romani”. Dove sta l’identità italiana più autentica? Leopardi aveva un’idea precisa, ma com’è l’Italia del XXI secolo?

A. Ferrazzi, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1820 ca.

…E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci (1954)

Aver cura. L’Italia risiede nell’aver cura. Aver cura delle cose, fare le cose per bene. L’Italia è in cose fatte per bene – case, oggetti, opere; libri, film, vestiti, utensili, ambienti, cibi, vite, modi di vivere – lungo epoche, secolo dopo secolo.
Quest’idea e questa pratica, a un certo punto, si sono persi. Smarriti.
Gran parte dei nostri problemi attuali e dei costi che affrontiamo per essi è dovuta a una sottovalutazione madornale, drammatica di questo aspetto. E la scusa è: “Non ho tempo”. Non hai tempo, non avete più tempo per curare le vostre vite o ciò che realizzate? Per fare le cose come si deve? Questa è la causa maggiore della rovina attuale.

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L’amarezza e la piccolezza italiana coincidono, costituiscono il cuore della nostra identità e della nostra civiltà. Il costruire cose piccole, ingegnose, resistenti, belle e ben fatte, e attraverso queste costruire una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, oltre la stupidità e l’ignoranza e la miseria e il conflitto: l’armonia è questa amarezza.

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Mio padre mi ha mostrato una fotografia ritrovata chissà dove. Cioè, non è che me l’ha mostrata. Ho visto sul tavolo del salone questi due ragazzini, dall’aria quasi di zingarelli, vestiti di semplici abiti (una specie di strano gilet andaluso per lei, più grande, dodicenne; un cappottino e i calzoni corti per lui, di otto anni); ma ciò che mi ha stupito, all’inizio, era proprio l’aria “straniera”, estranea, aliena di quei due: come se appartenessero a un paese sconosciuto, e da lì le loro facce mi stessero guardando; un attimo dopo, mi sono detto: “Ma certo, questi due ragazzini sono mia zia e mio padre: sono praticamente identici a oggi nei lineamenti, sessantaquattro anni dopo”. A quel punto, ad essere stupito era mio padre.
Il paese sconosciuto sono gli Anni Quaranta italiani.
Un’altra cosa meravigliosa è il muro che occupa tutta la superficie della foto, lo sfondo su cui si stagliano queste due figurine e che sembra a sua volta inglobarle: un muro italiano che poteva esistere solo nel 1949, tutto sbreccato e graffiato, un muro che sembra un Burri o un Dubuffet dei medesimi anni; un muro che è al tempo stesso povero e elegantissimo, un muro con una personalità, le zone scrostate che trascendono in quelle del tempo, della foto stessa, della memoria…
Il muro nella foto del 1949 con zia Titina e mio padre: il muro che sembra colare sulla stampa, con le sue scrostature e le sue zone seppiate, con i suoi graffiti informali e commoventi. Il muro è il neorealismo – la riscoperta della realtà.

Giotto, Il sogno di Innocenzo III (Storie di San Francesco), 1292-96, Basilica Superiore di San Francesco, Assisi

Giotto, Il sogno di Innocenzo III (Storie di San Francesco), 1292-96, Basilica Superiore di San Francesco, Assisi

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Ma tu non puoi aver idea di un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e vastità dei monumenti romani, paragonandoli colla piccolezza e nudità di questo sepolcro [di Torquato Tasso, N.d.A.]. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente di interessare e animar la posterità…” (Giacomo Leopardi, Lettera a Carlo Leopardi, 20 febbraio 1823, in Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma, 1822-32, Utet 2014, p. 59). “Piccolezza e nudità”: l’Italia è praticamente tutta qui. Leopardi istituisce questo confronto – che è anche un contrasto fortissimo – tra il piccolo, spoglio, scabro sepolcro e la “infinita magnificenza e vastità dei monumenti romani”, e sceglie senza esitazione dove collocarsi e dove collocare l’identità italiana più autentica.
Alla fine della lettera, anzi, per corroborare questa idea l’autenticità (la “verità”) è evocata direttamente ed esplicitamente come criterio: “Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata, e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano, che quelle degli altri, e dimostrano i costumi e il carattere di persone la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura, e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione” (ivi, p. 60).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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