Arte, critica, e cittadinanza. Michele Dantini risponde a Luca Bertolo

Riassunto delle puntante precedenti: Michele Dantini scrive su Artribune alcuni pezzi dedicati alla critica d’arte. Luca Bertolo li legge e risponde con una lettera aperta, che pubblichiamo qualche giorno fa. Dantini raccoglie gli spunti ed ecco la controrisposta. In sintesi: questo è il mondo dell’arte che ci piace, che dibatte, si confronta, riflette e propone.

Caro Luca,
sono innanzitutto lieto che anche tu abbia potuto contribuire alla discussione su arte, critica, cittadinanza – discussione che mi auguro possa estendersi ulteriormente. Apprezzo la tua mobilità tra profili autoriali diversi – artista sì, ma anche critico, interprete, talvolta curatore. È una mobilità in cui confido.

MICHELE DANTINI E GLI ARTISTI CONTEMPORANEI
La prima cosa che mi viene da dirti è questa: mi occupo di artisti contemporanei, eccome. Tu stesso rimandi a un mio dialogo recente con Flavio Favelli. Oltre agli articoli apparsi di recente su Artribune, nella mia rubrica Zion o in altre parti del giornale, qui, qui, qui e qui (a mo’ di semplice esempio) non faccio altro che descrivere, ricomporre e commentare la scena artistica nazionale e internazionale più recente commentando episodi specifici, personali, fiere, manifestazioni ricorrenti, da Basilea a Kassel, da Münster a Venezia e Lione; e dedicando riflessioni specifiche a Kitty Kraus, Pisano, Gillick, Tillmans, Tiravanija, Horn, Hakansson, Deller, Buckingham, Gander, FOS e innumerevoli altri, anche italiani, da Pietroiusti a Biscotti, da Cuoghi a Cattelan e Vezzoli (qui; e chissà quanti altri tralascio ingiustamente di nominare).

COSA SARÀ L’ARTE?
Devo però dire che, mentre seguo con attenzione gli artisti del nostro presente, mi occupo con intensità quantomeno pari dell’arte a venire. O meglio. Cerco di rispondere a questa domanda: che cosa chiameremo “arte” tra dieci, venti o trenta anni? A quali ambiti di attività (che oggi non consideriamo “artistici” in senso stretto) riconosceremo il merito della Grande Creatività, la creatività che suscita e trasforma mondi? Quali sfide immaginative, etiche, religiose o scientifiche magari prima che estetiche, contenderanno all’indispettita corporazione degli artisti il titolo di “arte”? Quali le nostre prime e più vere necessità, di quali opere – se di “opere” si tratterà – e di quali scoperte? Magari cercheremo l’“arte” altrove, non nelle enclave autocertificate dove, per pigra consuetudine, siamo più persuasi di trovarla già adesso. “Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere”, scrive Piero Manzoni. È un’affermazione, la sua, che non ha niente di “debolistico”, di postmoderno o di dimissionario. Chi è l’“artista”? Questa è la domanda che Carla Lonzi lascia aleggiare attorno alla sua scelta di silenzio successiva a Autoritratto. Uno spunto adeguato per tornare a dialogare.
Mi affascina il fatto che non esistano segnaletiche relative all’arte del futuro. Quali apparenze prenderà? Quali cerchie saranno depositarie del suo segreto? Come cospireremo per la sua affermazione, se mai saremo in grado di riconoscerla per tempo? Una nuova Anna Magnani tornerà a cadere sul selciato del quartiere di San Lorenzo, uccisa dai nazisti come in Roma città aperta? Oppure redivive generazioni di amanuensi saranno impegnate a tracciare le forme fantastiche degli animali dell’Apocalisse?
Forse non accadrà niente di tutto questo. Saremo invece dediti a penetrare i misteri n_dimensionali dello spazio-tempo caldo o a sperimentare assetti sociali misericordiosi. Praticheremo diete ultravegane e abiteremo negli oceani cantando con i nostri fratelli delfini e le nostre sorelle balene. Un’umanità illuminata e condotta fuori dalla caverna potrebbe non avere alcun bisogno di “arte”; e i nostri discendenti potrebbero trovare presuntuosa e insieme idolatrica la nostra fede in definizioni sommarie. Perché gli artisti non dovrebbero essere rinviati alle responsabilità specificamente umane, e talvolta civili, di cui si nutre la loro stessa attività? Non è detto che domani o dopodomani cercheremo “arte” ancora sui creduli scaffali del particolare sottosettore del commercio internazionale che oggi chiamiamo pomposamente “arte contemporanea”.

Jean-Etienne Liotard, La cioccolataia, 1744

Jean-Etienne Liotard, La cioccolataia, 1744

QUANTO È PAVIDA L’ARTE
Consideriamo Marcel Duchamp, pur sempre Duchamp: a patto però di metterlo a nudo, svelarlo in una semplicità priva di difese. L’artista in lite con l’arte (quale ci è rivelato dalle opere) è a tratti così diverso dall’impassibile giocatore di scacchi: per niente indifferente, per niente gransignoriale. È coinvolto, mobilitato. Possiamo strappare la maschera alla sfinge, comunicarne l’enigma in modo diretto? Forse sì. Ci provo.
L’arte (sostiene Duchamp) è una cosa grande e pressoché divina quando ci mette in contatto con le nostre emozioni più profonde, quando spazza via (in primo luogo negli “artisti”) vanità, piccole ambizioni, adulazione e amor proprio – quando spazza via quel “fetido Ego” autoriale di cui appunto lui stesso (con riferimento primario a Courbet e ai suoi eredi, ma pure a se stesso) scrive con inattesa durezza.
Ma l’arte riesce ancora a fare tutto questo? Ecco il dubbio duchampiano, ripetuto più volte, dissimulato più volte sotto enigmi, sciarade, maschere. Ecco anche le ragioni del suo sincero interesse per tradizioni figurative applicate, “servili”: il disegno tecnico, la modellistica astrofisica o quantistica, la tavola anatomica (quante citazioni da Leonardo, l’artista-scienziato, nel Grande vetro!). L’arte contemporanea, ai suoi occhi, è “anemica”. Non porta a fecondità la sposa, non cattura il movimento né morde la mela. È celibataria, così come l’artista: separata dalla “vita”.
Altre attività, altre discipline, altri saperi riescono invece a dischiudere mondi, a destare passioni durevoli e a cambiare le nostre esistenze. L’arte no. Non più, perché (fatalmente: non per sua immediata responsabilità) si è distaccata da ciò che è o può essere di cura e interesse comune. A differenza che in passato, l’ambito estetico non scuote la mente né la strappa al torpore abituale, nutrito di luoghi comuni e confortevoli servitù.
Non è in gioco un mutamento definitivo – non esistono mutamenti irreversibili nella storia umana – né un destino né un esito: è una congiuntura apertasi (questa sempre l’opinione di Duchamp) con la cesura modernista. A mio avviso siamo ancora ben dentro questa congiuntura: essa diminuisce l’importanza dell’“arte” (cioè l’arte che il mondo dell’arte riconosce circolarmente come tale) e trasferisce ad altre attività – meno protette, meno vezzeggiate, più esigenti e disinteressate – il rischio, il coraggio, la temerarietà, l’azzardo, l’immaginazione potente che in altre epoche sono state appannaggio della tradizione umanistica e protoumanistica delle “arti liberali”. Per uscire dall’impasse dovremmo forse educarci (o meglio rieducarci) a non avere paura del nostro più disarmato candore.

Luca Bertolo, Madonna dello yogurt, 1998

Luca Bertolo, Madonna dello yogurt, 1998

L’ARTE FUORI DI SÉ
Dunque, certo: scrivo di artisti contemporanei. Ma soprattutto cerco di immaginare la topografia futura (professionale e sociale) di ciò che intendiamo con il termine “arte”. Verso quali lidi migrano oggi la Grande Creatività, la Potenza e la Visione? Non possiamo appagarci della definizione corrente di “arte”: in questa materia non giova il senso comune.
Credo oggi che gli ambiti della ricerca pura, dell’innovazione giuridica, economica e (talvolta) tecnologica, dell’“audience development” e persino dell’erudizione o della divulgazione possano essere molto “artistici”, almeno se ci atteniamo a una definizione di “arte” intesa come “scultura sociale” (o dialogo socratico, se preferisci). Non a caso, in omaggio ad Alexander von Humboldt, viaggiatore, esploratore, botanico, antropologo, mecenate delle arti, editore, scrittore, progettavamo una rivista dal titolo Chimborazo, ormai quasi quindici anni fa! Se però intendiamo considerare ambiti più elusivi e ritrosi, quali il disegno, la pittura o la scultura, per cui conservo venerazione, bene: dico che a queste arti propriamente “liberali” rimane il compito di ricondurre l’osservatore a un’umanità più ampia e profonda, a un ambito forse di silenzio e di quiete, di dubbio filosofico e di stupore inquisitivo – e persino di incanto, furore o rapimento. Come sempre da sempre, peraltro. Personalmente ritengo che taluni quadri di Baselitz (giovane), Richter o (talvolta) Tuymans possano dialogare (e di fatto dialoghino) con l’arte dei musei, e esprimano emozioni profonde, solo in parte riconducibili all’epoca. Ma temo che pochi possano prendere parte alla conversazione.
Dunque? Dunque niente, in definitiva: sono e sarò sempre felice di potermi occuparmi di “artisti” contemporanei, come tu chiedi e come tante volte mi è successo anche con te, a patto che ciascuno riconosca e coltivi l’ubiquità dell’“arte” – niente più enclosures o gilde, per favore! – e si impegni a stabilire partnership innovative con i propri pari, al di fuori dell’orribile burocrazia delle designazioni professionali (“critico”, “artista”, “gallerista”, “curatore” etc. etc. etc.).

Un caro saluto, ciao!
Michele

Michele Dantini

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Michele Dantini

Michele Dantini

Storico dell’arte contemporanea, critico e saggista, Michele Dantini insegna all’Università del Piemonte orientale ed è visiting professor presso università nazionali e internazionali. Laureatosi e perfezionatosi (Ph.D.) in storia della filosofia e storia dell'arte presso la Scuola Normale Superiore di Pisa;…

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