In lode del Contemporaneo manierista

Siamo proprio sicuri che l’arte visiva “contemporanea” sia così disomogenea come si tende, un po’ acriticamente, a ritenere? Forse è ora di riconsiderare la questione. Magari guardando al lavoro di tanti artisti attivi oggi…

Da un po’ di tempo – non molto in realtà – si parla di arte (visiva) “contemporanea”, anzi di “contemporaneo, in riferimento all’arte degli ultimi cinquant’anni circa, e non a quella prodotta “since 1900” (per citare un importante volume dal titolo eloquentemente elusivo in tal senso).  Non solo, ma lo si fa avendo in mente linguisticamente un tipo di arte, e non tutta quanta l’arte prodotta. (Ops, dell’ultimo mezzo secolo fatte salve le dovute eccezioni, che sono tali perché, come si suol dire, troppo avanti. Due su tutte: Malevich e Duchamp, “contemporanei” prima del Contemporaneo).
Diciamolo: l’aggettivo “contemporanea” (riferito ad “arte”) da “aperto” e neutro che era – perché solo temporale – si è andato trasformando sempre più, all’opposto, in sostanziale e linguistico – una volta si sarebbe detto: in stilistico. “This is so contemporary”, era il refrain di un’acclamata performance dell’artista Tino Sehgal. This, appunto, come a dire non altro; e contemporary, “contemporaneo”, quale parola non più evanescente ma al contrario riferibile a una categorizzazione estetica ben precisa. Ci si faccia caso: si tende a dire – in Italia almeno – “il” contemporaneo, con tanto di articolo, come avviene per Gotico, Barocco o Romanico – e a scriverlo con l’iniziale maiuscola. Altro che “tutta l’arte è stata contemporanea”! Contemporanea è solo l’arte di oggi. Di più: solo una certa arte di oggi.

Martin Creed, Work No. 1092, 2011 - photo Linda Nylind

Martin Creed, Work No. 1092, 2011 – photo Linda Nylind

Al momento però siamo in mezzo al guado. Perché, se sul piano del sentire comune la focalizzazione di ciò che è arte “contemporanea” è ormai avvenuta, in ambito critico una teorizzazione della sua compattezza non è ancora stata osata. Una contraddizione non da poco, io credo. Dico questo per difendere tanti artisti attivi oggi dall’accusa di fare arte derivativa, di ripetere pedissequamente codici risalenti agli Anni Sessanta e Settanta, perché ritengo sia sottostimato l’apporto di novità offerto dalla carica sintetizzante del loro lavoro. L’ipotesi da prendere in considerazione è che questi artisti, proprio perché riescono a muoversi agevolmente tra istanze che troppo scolasticamente avevamo imparato a considerare come ognuna a se stante, ci stiano dicendo – con le opere – ciò che non siamo ancora riusciti a mettere a fuoco con la teoria. E cioè che, appunto, l’arte visiva del secondo Novecento contrassegnabile linguisticamente come “contemporanea”, lungi dall’essere disomogenea – come si è troppo superficialmente portati a pensare –, si possa invece leggere, avvicinare, recepire a partire da una più che granitica univocità di senso. (E in fondo un periodo di cinquant’anni non è così ampio per i tempi dell’arte visiva, che non sono quelli della moda!).

Alek O. – If There is a Last Summer Morning . 2014 - veduta della mostra presso Frutta, Roma - photo Roberto Apa – Courtesy l’artista e Frutta Gallery

Alek O. – If There is a Last Summer Morning . 2014 – veduta della mostra presso Frutta, Roma – photo Roberto Apa – Courtesy l’artista e Frutta Gallery

Perciò bisognerebbe prendere un po’ più sul serio questi artisti. E invece di liquidarli come epigoni o citazionisti, considerarli piuttosto come dei manieristi, grazie ai quali è attivabile in termini storico-critici un’operazione di saldatura, di cui si sente il bisogno. Ok, le loro opere sono generalmente prive dell’urgenza tipica delle opere battistrada; ma d’altro canto proprio questo manierismo anche qualitativo, che attiene al loro carattere di opere-saggio disvelanti, può aiutare a dare corso a tale sintesi. Si tratta di qualcosa di profondamente degno d’attenzione, e anche di destabilizzante. (Che il manierismo possa essere destabilizzante è un’altra bella contraddizione, ma tant’è). Lo è perché il riconsiderare numerose istanze dell’arte dell’ultimo mezzo secolo quali declinazioni di un unico paradigma consentirebbe di superare una certa retorica dell’eterogeneità che ha portato ad attribuire – un po’ troppo generosamente – una valenza epoch-making ad ognuna di esse, anziché al Contemporaneo nel suo complesso. Ma lo è anche perché, in un’ottica di apertura a nuovi sbocchi e scenari, un processo di sintesi retroattiva volto a superare distinguo troppo spesso solo formalistici può contribuire a rendere il nostro presente più propenso a volgere lo sguardo in direzione di ulteriori scatti in avanti.

Allora & Calzadilla, Algorithm – Padiglione USA – Biennale di Venezia 2011 – photo Andrew Bordwin

Allora & Calzadilla, Algorithm – Padiglione USA – Biennale di Venezia 2011 – photo Andrew Bordwin

Il quadro quindi può essere riassunto in questo modo: mentre per un verso viene tuttora considerato inammissibile uno sguardo critico coagulante avente per oggetto la produzione artistica degli ultimi cinquant’anni, d’altro canto è proprio questa l’operazione che molti artisti “manieristi” stanno attuando oggi, oserei dire da critici inconsapevoli – oltre che da ottimi interpreti della raggiunta maturità del nostro tempo.

Pericle Guaglianone

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Pericle Guaglianone

Pericle Guaglianone

Pericle Guaglianone è nato a Roma negli anni ’70. Da bambino riusciva a riconoscere tutte le automobili dalla forma dei fanali accesi la notte. Gli piacevano tanto anche gli atlanti, li studiava ore e ore. Le bandiere erano un’altra sua…

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