Massimo Di Carlo. Storia familiare della Galleria dello Scudo

Pronipote d’arte, Massimo Di Carlo è il titolare della Galleria dello Scudo a Verona. Una vita intera spesa a contatto con opere e artisti, puntando sempre e rigorosamente sull’Italia. Anche quando farlo era una scommessa persa in partenza…

Ci sono figli d’arte, qualche nipote d’arte: lei è un caso raro di “pronipote d’arte”…
Sì, la mia bisnonna faceva l’antiquaria, ma chiaramente era tutto un altro mondo. Certo, in casa c’era un clima aperto, lei aveva gallerie a Parigi, a Sankt Moritz… Anche mia madre avrebbe voluto interessarsi d’arte moderna, ma fu ostacolata in tutto e per tutto: infatti su consiglio della famiglia si iscrisse alla facoltà di Chimica pura. Ma una volta conclusi gli studi, disse a sua nonna: “Ecco qua, questa è la laurea che avete voluto che io prendessi, adesso però mi metto a fare quello che voglio io”. Si iscrisse alla facoltà di Lettere, con una specializzazione in Storia dell’Arte.  Nasce da qui l’idea della prima galleria d’arte, che lei aprì il 1° dicembre del 1969 assieme a una socia, e dove io entrai quindi nel ’71, senza sapere niente.

Anche lei destinato a fare altro?
Eh sì. Dovevo fare l’avvocato, ho frequentato la facoltà di Giurisprudenza e sono riuscito a finirla, poi ho cominciato questo lavoro, un po’ navigando a vista…

Com’era in quel momento l’ambiente in Italia?
Beh, noi arrivavamo da Milano, dove in quel momento – siamo alla fine degli Anni Sessanta – c’era una vita culturale straordinariamente pulsante: a Verona l’evento più importante dell’anno era la fiera agricola, che si teneva nel mese di marzo. Una città economicamente ben strutturata, questo è evidente, però con un pensiero diffuso che era quello del “Veneto bianco”…  Chi veniva da Milano veniva guardato con sospetto, perché magari poteva portare delle idee innovative e pericolose: in quegli anni regnava un forte conservatorismo, anche a livello politico, il che rendeva l’ambientazione, per chi arrivava da fuori, abbastanza problematica.

Quali erano agli inizi i riferimenti, della galleria e poi suoi?
Mia madre e la sua socia avevano come nume tutelare Marco Valsecchi, famoso critico d’arte, che era quello che indicava gli artisti da esporre, le tendenze da seguire. La nostra comunque è sempre stata una galleria di arte italiana, lo è tuttora e lo sarà sempre, fino a quando esisterà. Non abbiamo mai esposto un artista straniero: lo sport preferito dagli italiani è quello di lamentarsi, nel caso specifico del fatto che in Italia ci sono artisti straordinari, ma poi all’estero non li conosce nessuno; allora la Galleria dello Scudo porta solo arte italiana, anche quando partecipa alle grandi fiere internazionali, dove magari sarebbe più facile vendere, per dire, il disegno di Picasso…
Il nostro esordio alla fiera di Basilea è nel 1994: ricordo che fino al ’98 nessuno chiedeva nemmeno i prezzi di autori come Fontana, Burri, Manzoni, perché nessuno li conosceva. Io ho vissuto questo sulla mia pelle: tanto è vero che il primo quadro di Fontana venduto dalla mia galleria era un portentoso taglio di quelli della Biennale del ’66, acquistato da un collezionista belga, ma eravamo nel 1999.

Gianni Dessì, Confini 2, 2009 - installazione ambientale alla Galleria dello Scudo, Verona 2009-10 - photo Claudio Abate

Gianni Dessì, Confini 2, 2009 – installazione ambientale alla Galleria dello Scudo, Verona 2009-10 – photo Claudio Abate

Un altro sport amato dai galleristi italiani è quello di prendere artisti affermati all’estero e portarli da noi…
Noi facciamo il percorso inverso, per quello che ci è possibile. Molte volte, attenzione, c’è anche un ostracismo da parte di certe strutture internazionali di fronte all’arrivo dell’arte italiana. Perché spesso l’arte italiana è di maggior qualità e – proprio per i motivi che accennavamo – costa magari meno, viene vista con sospetto. Negli ultimi anni in verità ci sono state delle importanti aperture, grazie anche al lavoro delle case d’asta, alle quali va riconosciuto il grandissimo merito – parlo di Sotheby’s e Christie’s – di aver istituito nel 1999 le Italian Sales a Londra, sollevando un’attenzione sull’arte italiana come solo loro potevano fare.

Un gallerista che parla bene delle case d’asta?
Le case d’asta hanno il grandissimo merito di aver aperto nuovi mercati, però hanno la responsabilità di trasformare il mercato dell’arte in un mercato di finanza pura: anche le operazioni che si stanno svolgendo adesso su alcuni artisti italiani sono pure operazioni di finanza. Qual è la differenza fra una galleria e una casa d’aste? La galleria è il luogo dove si forma il gusto, dove si forma la collezione, dove il gallerista parla con il collezionista, lo indirizza, lo consiglia, per questo la galleria non perderà mai la propria identità. E le case d’asta non riusciranno mai a portargliela via.

*C’era una galleria alla quale agli inizi vi ispiravate o con cui collaboravate?
Il nostro asse era fondamentalmente Verona-Milano. Fin dagli inizi la galleria collaborava con gallerie milanesi, dalla Bergamini alla Blu alla Galleria del Naviglio, che spesso purtroppo ora non esistono più. A Firenze collaboravamo con la galleria di Wilma Michaud, in Lungarno Corsini, con la quale nel 1974 facemmo un’incredibile mostra sul Liberty italiano: arredammo tutta la galleria con dipinti e ceramiche di Chini, mobili di Basile. Lì siamo stati anticipatori, a quei tempi il Liberty si trovava nelle soffitte delle nonne: poi venne la famosa asta Finarte a Milano, nel 1975, dove una lampada di Tiffany con le libellule venne venduta a 14 milioni di lire.

Siamo già nel pieno dei “difficili” Anni Settanta…
C’era un clima incredibile, negli anni Settanta: capitava che per vendere un quadro di Morandi lo si dovesse barattare magari con un Migneco, un Sassu, e magari una differenza in denaro. Morandi allora non lo voleva nessuno. Nel ’76 feci in galleria la sua prima mostra, mi dovetti indebitare fortemente per comprare sei dipinti: alla fine non ne vendetti nemmeno uno. Dalla disperazione mi salvò un collezionista di Milano, mio carissimo amico tuttora vivente, che venne qui, comperò tutti i quadri e mi chiese pure quanto volessi guadagnarci. Mi sembrava un marziano: veniva a tirarmi fuori dai guai, e per di più mi volle dare un guadagno…

Eliseo Mattiacci, Il carro solare del Montefeltro, 1987 - mostra allestita alla Galleria dello Scudo nel 2010-11 – photo Claudio Abate

Eliseo Mattiacci, Il carro solare del Montefeltro, 1987 – mostra allestita alla Galleria dello Scudo nel 2010-11 – photo Claudio Abate

Uno dei suoi tanti incontri con collezionisti speciali…
Uno dei collezionisti più incredibili allora era Carlo Monzino, fra gli scopritori di Fautrier, amico di Andy Warhol, quello che organizzò la mitica mostra Ladies and Gentlemen a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, comperandola tutta, e organizzando poi l’altrettanto mitica festa nella sua casa di Venezia, presente Warhol. Un giorno viene da me un comune amico e mi dice che Monzino voleva comprare qualcosa di Medardo Rosso, di cui noi avevamo in galleria tre opere straordinarie. Io ero intimorito, allora ero un ragazzotto di 25 anni, questo signore veniva dalla famiglia proprietaria della Standa, suo fratello aveva finanziato la spedizione sul K2, per capirci. Grande e grosso, sembrava un po’ Buazzelli. Arriva in galleria, preceduto dal suo segretario, guarda un po’ le sculture, gira, chiede il prezzo, ma quasi in modo distratto, e si avvia all’uscita. Sulla porta, si gira e mi fa: “Scusi, ma lei mi ha detto che queste sono cere…”. “Certo, dottor Monzino, Medardo Rosso usava abitualmente la cera per le sue opere”, risposi io. “Ah, sono cere?”, riprese, con un’aria quasi sbalordita. “Allora senta, non le prendo: e se poi si sciolgono?”. Io volevo suicidarmi, ma lui era stato un grande.

*Brutta vita, aver da combattere con gente volubile come i collezionisti…
Ho incontrato casi di irrazionalità profondissima, di imprevedibilità, di incompatibilità mentale, di isteria, di fragilità. Il collezionista vero è un personaggio patologico, non è una persona normale. Mi ricordo il professor Giovanardi, le cui figlie hanno dato in deposito un’incredibile collezione di quarantadue Morandi al Mart: quel signore, quando aveva novantuno anni, comperava ancora i quadri, e al 42esimo Morandi, quando riusciva a mettere le mani sull’opera che desiderava veniva preso da una sorta di frenesia compulsivo/erotico/possessiva, si fregava le mani contento come un bambino. Non era “sano”, se si capisce il senso che voglio dare alla parola: certo, stiamo parlando di una persona che era Medaglia d’Oro del Consiglio Superiore di Sanità per aver portato in Italia il vaccino anti-polio, eh. C’è questo sdoppiamento della personalità, che mette a nudo la psicopatologia del collezionista.

Collezionisti difficili, nel senso virtuoso. E gli artisti? Com’è stato il rapporto con gli artisti?
Se parliamo di situazioni difficili, posso ricordare le vicende della mostra che facemmo nel 1975 con de Chirico, con lui ancora vivo. Ero andato a trovarlo a Venezia, dove lui passava tutti i mesi di settembre. Parlammo, studiammo le fotografie, ci accordammo su tutto. La sera dell’inaugurazione, non arriva de Chirico: c’era tutta la galleria piena, tutti volevano incontrarlo. A metà serata, entrano dalla porta i Carabinieri, quelli del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico: lui aveva visto le riproduzioni di alcune opere sul catalogo, ma non si ricordava più che ne aveva garantito di persona l’autenticità. Siccome le riproduzioni sul catalogo non erano venute benissimo (a quell’epoca le tecniche di stampa erano ancora abbastanza arretrate), mise in dubbio l’originalità e mandò i Carabinieri a sequestrarle. Successe il finimondo, notizie Ansa, tutti i giornali ne parlarono: e io avevo 24 anni! Poi la cosa si chiarì, prima ancora che si andasse al processo. Lui è stato uno dei casi più difficili, ma del resto de Chirico era famoso per scene simili.
In tanti anni chiaramente ho stabilito rapporti quasi fraterni con tanti artisti: penso a Luigi Ontani, al gruppo di Via degli Ausoni, a Eliseo Mattiacci. Con lui ricordiamo spesso quando alla fiera di Basilea costruimmo tutto il pavimento dello stand di piombo, e la sera prima dell’inaugurazione volevano farcelo togliere, perché c’era il rischio inquinamento.

La sua galleria presenta spesso mostre di livello museale, con cataloghi sontuosi, anche molto costosi. Ma a fine mese lei li fa i conti?
Il primo catalogo importante lo facemmo nel 1982, con la mostra di Gino Rossi: cambiata la copertina, quello poi divenne il Catalogo Generale delle opere di Gino Rossi, pubblicato da Electa. Io capii che la cosa importante era non fare mostre generaliste, ma focus su particolari periodi di artisti che ci interessavano. Facemmo de Chirico degli Anni Venti, poi de Chirico degli Anni Trenta, Realismo Magico, con Maurizio Fagiolo dell’Arco. Poi Boccioni, Materia, assieme a Laura Mattioli: la prima mostra in Italia fatta su un solo capolavoro del Futurismo, con tutte le opere che erano studi propedeutici a Materia. Capii che la cosa importante era la grande qualità della mostra, a prescindere dalla vendibilità o meno delle opere: abbiamo fatto anche mostre storiche con nessuna opera in vendita. Siamo l’unica galleria d’arte in Italia ad avere prestiti di opere da musei, e dallo Stato: abbiamo avuto prestiti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dalle Civiche Raccolte d’Arte di Milano, per esempio.

Alberto Burri - Opera al nero. Cellotex 1972-1992 - veduta della mostra presso la Galleria dello Scudo, Verona 2012-13 - photo Paolo Vandrach

Alberto Burri – Opera al nero. Cellotex 1972-1992 – veduta della mostra presso la Galleria dello Scudo, Verona 2012-13 – photo Paolo Vandrach

Va bene. Ma è un investimento notevole che ormai non fanno più neppure i musei…
Come abbiamo pagato questi grandi cataloghi? Abbiamo sempre fatto pochissima pubblicità su giornali o riviste: queste grandi mostre erano la nostra forma di investimento pubblicitario. Sironi, 1981: Testori sul Corriere della Sera scrisse “Io, storico dell’arte, critico, commediografo, drammaturgo, pittore, grande amico di Sironi, non ho mai visto una mostra più bella di quella fatta alla Galleria dello Scudo”. Nel 2007 facemmo una grande mostra di Pietro Consagra, con un catalogo monumentale: se un giorno il mercato apprezzerà la sua opera per quel che realmente vale, la Galleria dello Scudo sarà un punto di riferimento. Un investimento a lungo, lunghissimo termine.

Arte italiana: un tema che sarà centrale per il taglio che sembra darà Vincenzo Trione al suo padiglione alla Biennale di Venezia, l’identità italiana…
Intanto stimo Trione, che ho avuto modo di conoscere in diverse occasioni, anche leggendo i suoi studi per esempio su de Chirico, su Savinio, per mostre di cui sono stato tra i prestatori. Ne apprezzo molto la profondità di lettura e la competenza, e per questo ho fiducia verso quello che potrà proporre a Venezia: premesso che spero che nel padiglione italiano lui non proponga l’arte storica, ma la contemporaneità, anche se magari coinvolgerà non solo artisti trentenni, ma amplierà la visuale a qualche grande maestro vivente. In termini generali, non posso che sostenere un progetto che pone al centro la grande qualità dell’arte italiana.

Lei per oltre dieci anni è stato presidente dell’ANGAMC, i galleristi italiani, mentre la sua compagna, Gabriella Belli, era presidente di AMACI, i musei italiani. Non le sfuggirà un certo conflitto…
Anche se questo vuol dir poco, io non sono mai andato a una sola inaugurazione del Mart, quando era lei a dirigerlo. Ma quel che più conta è che io, in questa situazione, ho sempre agito, se vogliamo, contro il mio interesse professionale di gallerista. Va a mio merito il fatto che certe collezioni, alla morte del collezionista, non siano andate disperse per i rivoli del mercato, che potevano passare attraverso di me, perché il defunto era mio amico: ma che anzi fossero date in deposito al Mart. Molte collezioni importanti del museo, dalla collezione Giovanardi alla collezione Feierabend alla collezione Ferro, sono raccolte che spesso ho formato io, ma che comunque io ho voluto che finissero lì, altrimenti nemmeno la Banca d’Italia avrebbe avuto i mezzi per comperarle.
Capii che questo era l’unico suggerimento concreto, l’unico aiuto che potevo dare alla mia compagna, che si accingeva ad affrontare un’impresa pazzesca: fare un grande museo d’arte moderna a Rovereto, che molta gente non sapeva neanche dove fosse. Come avrebbero riempito questo museo enorme, progettato da Mario Botta? L’unico sistema era il deposito delle collezioni, che io ho indirizzato verso il museo, contravvenendo – e ne sono fiero – alla mia professione di gallerista. Se in questo qualcuno scorge una forma di conflitto di interessi…

Da qualche anno suo figlio Filippo lavora con lei in galleria. Se la sentirebbe, di cuore, di augurargli altri quarantacinque anni così?
[Ride di gusto, N.d.R.] Eh, qui la vita e dura! Qui è cambiato tutto, il mercato dell’arte, è cambiata l’Italia, stiamo attraversando un periodo durissimo. In questi momenti bisogna lavorare di più, e sono momenti magici, perché possono crearsi situazioni irripetibili. Però, quando ho cominciato io c’era entusiasmo, c’era voglia di fare, non c’era questo senso quasi di rinuncia. Oggi vedo gente, non solo giovani, scoraggiata: se rinascesse quel coraggio, io a Filippo ne auguro novanta, di anni. Però sarà un cammino molto duro, e io ogni giorno glielo ripeto: questo è il più bel mestiere del mondo, sempre a contatto con l’arte, ma è una strada da lacrime e sangue, come diceva Churchill…

Massimo Mattioli

www.galleriadelloscudo.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23

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Massimo Mattioli

Massimo Mattioli

É nato a Todi (Pg). Laureato in Storia dell'Arte Contemporanea all’Università di Perugia, fra il 1993 e il 1994 ha lavorato a Torino come redattore de “Il Giornale dell'Arte”. Nel 2005 ha pubblicato per Silvia Editrice il libro “Rigando dritto.…

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