Morte e gloria di Charlie Hebdo. L’Europa contro i fanatici: una risata li seppellirà

La sua missione? Disegnare, informare, stare sull'attualità. Dissacrando, senza paura. E senza paura è morto, Stéphane Charbonnier, nella sede del suo giornale, per mano di chi invece temeva la libertà. Ancora qualche pensiero sulla strage di Charlie Hebdo. Ascoltando alcune dichiarazioni del direttore

Preferisco morire, piuttosto che vivere come un topo”. Parole di Stéphane Charbonnier, in arte Charb, direttore del settimanale satirico Francese Charlie Hebdo. Così raccontava, ai microfoni di un giornalista della Abc News, il senso della sua battaglia quotidiana, sfrontata come una risata, caparbia come una scelta necessaria, leggera come un segno di matita sul foglio. E tagliente, come tutte le battaglie giocate tra la vita e la morte, sfidando l’una e l’altra col ghigno di chi non vuole avere paura. “Il mio lavoro non è fare della battaglie per la libertà di parola. Il mio lavoro è occuparmi di attualità, disegnando. Ma non posso vivere in un paese in cui la libertà di parola non c’è”.

Stare sul pezzo, dunque, prendendo di mira le contraddizioni, le ipocrisie, le patologie, i vizi e il luridume che le società coltivano, nell’apparente normalità borghese. I fondamentalismi, gli integralismi, la sete di potere e le perversioni, la violenza strisciante e la deriva politica, di Oriente ed Occidente. Ma anche le religioni tout court, ridicolizzate senza pietà. Nessuno sfuggiva alla satira appuntita, radicale, anarchica, urticante, blasfema, sboccata, a volte aggressiva, di Charlie Hebdo. Cattolici e musulmani, cardinali e jihadisti, colonnelli di destra e fantocci di sinistra.
Vignette impubblicabili, per qualcuno. Perché dissacranti oltre misura. Sgradevoli? A volte sì. Ma anche lecite. Perché non v’è nulla, nell’ultimo secolo, che non sia stato dissacrato e messo in crisi. L’Io, Dio, il corpo, l’autorità, le forme ed i linguaggi noti. Una sete antidogmatica, spesso crudele, che ha scardinato per salvare, che ha ucciso per rigenerare, che ha fatto a pezzi per capire. E non è forse più blasfemo l’assassino, che brandisce kalashnikov in nome di un Dio sbagliato, traviato, deformato dall’occhio dell’odio e del potere?

Il “braccio armato” di Charb erano uomini come Cabu, Tignous e Wolinski. Disegnatori brillanti, che avevano fatto la storia della satira francese ed europea. Autori di caustiche vignette contro Maometto e l’Islam, da cui era venuta la rabbia degli integralisti. La sede del giornale era stata incendiata nel 2011, il direttore da allora era sotto scorta.
Eppure non è servita la scorta, non è servita la stampa, non sono serviti i riflettori accesi su quel plotone di guerriglieri col sorriso.

Stéphane Charbonnier

Stéphane Charbonnier

Tantomeno è servito predicare la democrazia, la necessita dell’integrazione, la forza del pensiero critico. E la condanna di qualunque fanatismo: quello del nemico interno, fintamente integrato, che coltiva l’odio per l’Occidente dal cuore oscuro di un ghetto metropolitano; e quello di chi vorrebbe alzare muri, facendo – stupidamente, pricolosamente – di ogni straniero una minaccia, di ogni musulmano un mostro, di ogni profugo un potenziale aggressore. Inscindibili allucinazioni, come detonatori uguali e contrari.

Charbonnier è morto, insieme a dodici giornalisti e vignettisti. E insieme a un agente di polizia musulmano. Un eroe di fede islamica, caduto per difendere la democrazia.
La strage del 7 gennaio 2015 apre una ferita profonda nel tessuto sociale di Parigi, nel corpus dei valori democratici della Francia e nel mezzo di un’Europa sempre più confusa, sempre più fragile, figlia di vecchie e nuove lacerazioni. Una ferita con cui bisognerà fare i conti, cercando un antidoto e una cura.
I terroristi che hanno assalito la redazione di Charlie Hebdo al grido di “Allah Akbar!” volevano vendicare il Profeta.
Quelle vignette irriverenti bruciavano più di un proiettile, erano l’emblema osceno della potenza più grande, persino più grande dei precetti di Dio: la libertà dell’uomo di pensare, di contestare, di scardinare. Alla luce del sole. Perché quella libertà che spazza via le regole e ridicolizza la mano severa del legislatore, del predicatore, dell’ortodosso e del dittatore, è il fantasma che toglie il fiato. La vertigine suprema. Combatterla, per certuni, è un fatto di sopravvivenza. Il solo modo per non perdere e non sprofondare. Erano loro, i topi. Loro ad avere paura.

Ed è il motivo per cui la banda di Charlie Hebdo andava avanti, spesso con quel piglio sgradevole e irrispettoso: sfidare il castello di certezze intitolato al potere, tirarlo via davvero, dimostrare che fuori c’è un mondo con mille direzioni, tutte da ribaltare. È la satira, signori. Che svela, trafigge, scoperchia, calpesta, enfatizza, stravolge e mette a testa in giù, qualunque cosa.
Fermarla? Impensabile. Un proiettile è niente, di fronte a tali mitragliate d’ironia. Di fronte all’urgenza di provocare, armati di scomodi pensieri. Altra satira verrà. Insieme a nuova arte e nuova letteratura. E colpirà i pavidi e i bigotti, coi tristi arsenali del lutto. Sono loro, disperate metastasi del potere, rigurgito di una intolleranza sciocca, ad avere già perso: se stessi, un posto nella società e il loro Dio.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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