Scambi di scena. Le mani di Riccardo Caporossi al CRT di Milano

Diamo il via a una nuova rubrica, diretta da Simone Azzoni, per parlare di scenografia a modo nostro. Qui è protagonista Riccardo Caporossi, letto attraverso le lenti – fra gli altri – di Warhol e Duchamp, Carl Andre e Robert Gober, Bruce Nauman e Sol LeWitt.

Scrive Baudrillard a proposito della sparizione dell’arte: “L’oggetto assoluto è quello il cui valore è nullo”. La sua qualità non serve a nulla. Non può tuttavia che essere un oggetto, più oggetto dell’oggetto. Magari un semplice mattone, una scaletta, una bottiglia, come nell’ultimo lavoro di Riccardo Caporossi, Mura. Il teatro prende per i capelli la fine annunciata del bello e lo salva dall’inestetica trascendentale di Warhol.
L’oggetto non si usa, non si scambia, non è merce. I mattoni dello spettacolo Mura sono mattoni che non significano più nulla, se non il superamento delle cose per generare l’inatteso, la fatalità, la magia che si svela dietro un piccolo boccascena nero. Il pubblico attende pazientemente ciò che c’è di nuovo nell’oggetto: l’istantaneo, l’autodistruzione, la sorpresa, la stranezza, l’inquietudine. Sparite le cause, tutti gli effetti sono virtualmente possibili. Mura è il minimalismo e l’arte concettuale. Innanzitutto la parola.
Caporossi spiega fuori campo che il muro è metafora di chiusura, mentale. Un gioco di suffissi e prefissi. La parola sostituisce l’opera. Sottile gioco della mente. Duchamp ci ricorda che il valore è discorso. Il nesso tra elementi linguistici e oggettuali figurativi è il fondamento del ready made, che dà nuove dimensioni di senso alla teoria e al limite tra oggetto e non oggetto. Ci penseranno poi Robert Barry, Douglas Huebler, Joseph Kosuth e Laurence Weiner a dire che già ci sono sufficienti oggetti nel mondo per non aggiungerne altri. Basta giocare con essi, come fa con le parole Bruce Nauman in Window or Wall Sign.

Mura

Mura

Poi gli oggetti. Il loro peso specifico, la loro materialità. La poetica di Carl Andre sul mistero della materia quando essa è solo ciò che è. Fuori dalle convenzioni della forma. Come nell’arte di Sol LeWitt, il mattone è progetto, è spazio, è modulo di una composizione, polvere rossastra. È la sua polvere quando si sgretola. È il minimalismo (di Frank Stella) questa volta a dirci che “ciò che vedi è ciò che vedi”. I mattoni di Caporossi formano un muro, lo spartiacque nel mito di Platone tra ciò che non so e ciò che si può svelare allo sguardo. Ma la materia, il muro che si forma al centro del palco, si sgretola piano, piano. Accanto ad esso altri oggetti appaiono: cappelli, una bottiglia, l’immancabile ombrello del duo Rem & Cap, una scala. Questa volta è l’estetica surrealista a dettare la bellezza per accostamento (ombrello, macchina da cucire…).

Mura

Mura

Infine il gesto. Le sole mani di Caporossi appaiono nella piccola porzione del boccascena nero illuminato dalla luce sottilissima di tre faretti. È l’arte di Robert Gober. Ciò che non si vede è disumano o dolore. Le mani avvolgono, creano, risucchiano, narrano. Danno la dimensione di un tempo sospeso e rarefatto, proprio dell’attesa, agiscono nell’invisibile mondo dell’immaginazione. Mani come metonimia dell’uomo. Parte per e del tutto. Personaggi, beckettiani, salgono una scala, srotolano un papiro, si aprono ad accogliere il timore, la paura, il desiderio, l’odio, l’interesse per l’altro.

Simone Azzoni

Milano // dal 13 al 16 novembre 2014
Riccardo Caporossi – Mura
CRT
Via Vincenzo Monti 12
02 48017050
[email protected]
www.crtmilano.it

 

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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