Inpratica. Lo specchio del pallone

Questa volta parliamo di calcio. Eh sì, perché anche lo sport è cultura, e le dinamiche del pallone possono dire qualcosa di interessante anche per il mondo delle arti visive. Ad esempio su giovani, mercato e imprenditoria.

Sgombriamo il campo dalla retorica alla Federico Buffa: il pallone non è romantica metafora di un bel niente. È una forma di intrattenimento persa tra milioni di altre, certo caricata di un afflato popolare, di un’aura accattivante e affascinante. Ma resta intrattenimento. Industria dell’intrattenimento. E come tale costruisce le proprie (s)fortune su modelli imprenditoriali che dicono molto della capacità di visione delle diverse culture, delle strategie messe in atto dalle nazioni leader. Il pallone, insomma, è sempre meno rotondo. Le vittorie e le sconfitte vivono in modo progressivamente minore dell’estro e della fantasia del campione, di quella casualità che ha voluto tonfi e trionfi distinguersi per una questione di centimetri. Il calcio è sempre più simile al basket, al volley o al rugby: sport di squadra dove il divario tecnico tra due formazioni è raramente sovvertibile, dove è difficile che Davide schianti Golia.
Il fallimento della Nazionale agli ultimi mondiali è così strutturale. Nasce dalla fragilità concettuale delle società sportive italiane, da una cultura d’impresa che è sbagliata. Negli ultimi tempi il modello indicato come vincente è quello dell’Udinese della famiglia Pozzo, da quasi un quarto di secolo alla guida della società bianconera. Perché? Perché fa utili, e anche tanti: quello di esercizio al netto delle tasse è stato, in riferimento alla stagione 2012/2013, pari a 32 milioni di euro. Il sistema dei Pozzo prevede una rete di dodici osservatori altamente qualificati a caccia di giovani talenti in Africa, Sudamerica, Europa dell’Est; ognuno dotato della versione tablet del geniale software MyScout.

Udinese

Udinese

La strategia è dunque quella delle grandi multinazionali: spendere competenze da Primo Mondo per capitalizzare le materie prime di Paesi che non sono strutturati per fare da sé. Si acquistano così a prezzi minimi i cartellini di giovani prospetti, che vengono educati al calcio a Udine o nelle società consorelle della holding – il Watford in Inghilterra e il Granada in Spagna – per essere trasformati e rivenduti a cifre milionarie. Con un processo analogo a quanto accade per il petrolio, il gas, i diamanti o anche l’arte, ovviamente; basti guardare alle “scoperte” di scene esotiche sapientemente saccheggiate da mercanti e galleristi, trasformate in spesso improbabili nuove mecche del contemporaneo. Con risultati analoghi a quelli per cui, dai tempi di Roger Milla a oggi, le squadre africane restano le eterne incompiute dei Mondiali di Calcio, incapaci – nonostante il talento dei singoli – di ottenere risultati sportivi di prestigio.
Il giochino dei Pozzo funziona, già. Emblematico il caso del cileno Alexis Sánchez, preso ad appena diciotto anni per la miseria di due milioni di euro; rivenduto cinque stagioni dopo al Barcellona per la cifra record di 37 milioni e mezzo. Ma attenzione: si tratta di un fenomeno altamente speculativo, che finisce per fare bene solo all’imprenditore. Perché la girandola di acquisti e cessioni che rivoluziona ogni anno la rosa dell’Udinese, con la vendita in estate dei suoi maggiori talenti e l’arrivo di giovani in parte ancora acerbi, si traduce sul campo in un andamento ondivago delle prestazioni. Soprattutto nel confronto con l’estero: le delicatissime partite preliminari per l’accesso alla fase finale di Champions o Europa League, alle quali la squadra si qualifica con una certa regolarità, vengono fatalmente ciccate. Con effetti depressivi per l’intero calcio italiano, che ha perso negli ultimi anni uno dei suoi quattro posti utili per l’ingresso alla Champions. E senza riuscire a eccitare gli animi dei tifosi: fatto salvo il caso del Cagliari, ampiamente penalizzato dai problemi di agibilità dello stadio Sant’Elia, l’Udinese è la squadra che dopo Chievo e Milan ha registrato nella stagione 2013/2014 il calo più sostanzioso nel numero degli abbonati, attestandosi sul -8%.

Calcio per pigri

Calcio per pigri

Preoccupa allora la simpatia e l’ammirazione che il mondo del calcio nutre nei confronti di un modello che risulta contrario alla natura stessa dello sport, che non contempla l’utile finanziario come fine ultimo. Anzi, si rivela nella sua accezione più genuina un consapevole gioco a perdere. Non è allora incentivando in modo astratto chi investe nei settori giovanili, né scegliendo la strada di un’autarchia che punta a diminuire il numero di giocatori stranieri nel nostro campionato che si può invertire la rotta. È semplicemente cambiando testa. Smettendo di pensare al calcio come un’attività finanziaria e tornando a considerarlo semmai come pratica artigianale, facendo leva dunque sul bagaglio di passioni e competenze che in tanti settori qualifica il made in Italy.

Francesco Sala

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Francesco Sala

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