Beni culturali. I restauri pagati dai privati e come renderli appetibili

A metà strada tra l'immobilismo culturale del Comune di Roma (ma la felice soluzione della faccenda del Teatro Valle potrebbe dare il via a un rinnovato vigore?) e l'attivismo di Dario Franceschini al Ministero della Cultura sta un fenomeno che ancora non è stato correttamente analizzato nella sua interezza e nelle sue sfaccettature. Parliamo dei finanziamenti mecenatistici di grandi aziende per il restauro di monumenti nella capitale d'Italia.

Non è trascurabile che a Roma siano in corso ben tre grandi restauri che riconsegneranno alla città e all’umanità tre significativi capolavori della storia dell’arte e dell’architettura a livello globale. Si parte dal monumento più famoso del mondo, il Colosseo, sul quale procedono i lavori finanziati dal gruppo italiano Tod’s per 24 milioni di euro, si passa dalla Piramide Cestia, quasi completamente restaurata grazie all’azienda giapponese Tsusho Ltd che esporta nell’Estremo Oriente abiti italiani e grazie al suo patron-mecenate Yuzo Yagi (1 milione di euro), per arrivare alla Fontana di Trevi – attrazione di valore quasi pari al Colosseo – sulla quale dopo 25 anni si procederà a un approfondito restauro in virtù dei 2 milioni donati dalla maison italiana (ma di proprietà del gruppo francese LVMH di Bernard Arnault) Fendi.
Ebbene, già è assurdo di per sé non mettere tutte queste iniziative sotto un unico cappello, sotto un’unica iniziativa. Già è sbagliato non considerarle un patrimonio da “vendere”, una case history da utilizzare nello storytelling di una città che “esce” sulle cronache solo per questioni negative. Tutto è episodico. Ci sono tre grandi restauri sponsorizzati da tre grandi privati e la cosa non viene sistematizzata, non viene raccontata. Ma questo è niente. Cosa si dà, infatti, in cambio ai “mecenati”? Che ritorno di immagine reale hanno? Qual è la filiera che dovrebbe invogliare altri, come loro, a contribuire al recupero del nostro patrimonio storico-artistico che, per dimensioni, non può verosimilmente essere manutenuto soltanto da Stato ed enti pubblici? Poco e niente, a quanto pare. Al Colosseo è stato addirittura vietato qualsiasi logo del gruppo che finanzia i restauri. Per carità, Diego Della Valle potrà per anni utilizzare il “brand” Colosseo nelle sue campagne pubblicitarie, si potrà vantare dell’opera sulle pagine pubblicitarie delle riviste patinate di mezzo mondo, ma il turista che transita di fronte all’Anfiteatro Flavio e ammira le prime cinque arcate recuperate non ha idea a chi dover dire grazie. Nella città più pubblicitariamente inquinata d’Occidente, nel regno di Cartellopoli, nella capitale occidentale dove operano 400 ditte di affissioni che tolgono dignità a tutto il territorio comunale, si vieta l’unica pubblicità che dà qualcosa in cambio alla collettività.

Il Colosseo impallato da un camion bar

Il Colosseo impallato da un camion bar

Ma c’è ancora di più e di peggio. Attorno a questi grandi cantieri di restauro non un millimetro dell’asfissiante degrado romano è stato minimamente arginato. Le palizzate di cantiere della Piramide Cestia (fornite di interessanti descrizioni della piramide e del processo di recupero) sono state più volte imbrattate da graffitari vandali e più volte sostituite. Sarebbe bastato uno straccio di videosorveglianza collegata a qualche straccio di centrale. Il cantiere-show di Fontana di Trevi è stato immediatamente oscurato dai venditori ambulanti di souvenir, e pensare che era stato tutto appositamente realizzato con materiali trasparenti per fare in modo che la folla potesse ammirare i restauratori all’opera. Al Colosseo, poi, il caravanserraglio di abusivi, faccendieri, malintenzionati e fuorilegge che sovraintende alla piazza non è stato minimamente infastidito dal grande cantiere pagato da un privato: e così il privato, che paga, viene associato sì a un restauro, ma anche a un ambiente degradato, non amichevole, spiacevole a livello di esperienza turistica. Non potrebbero essere, dunque, questi restauri motivo di riqualificazione dei luoghi? Non si potrebbe pensare di garantire ai mecenati che si impegnano un contesto in qualche misura protetto? Non si potrebbero evitare le lungaggini burocratiche assurde che hanno costretto i lavori al Colosseo di ritardare non di mesi bensì di anni? La cosa non potrebbe invogliare altri donatori a livello mondiale, altri che oggi stanno alla larga proprio per non doversi mescolare al contesto di degrado e abbandono in cui spesso versano i nostri beni culturali?
Insomma, a partire da queste esperienze romane, contemporaneamente in corso in questi mesi, non si potrebbe pensare di strutturare una filiera garantita e lineare nella quale convogliare gli interventi, garantendo benefici a molti dei nostri beni e al medesimo tempo però garantendo a chi investe il corretto tornaconto in termini di visibilità (guardate il bellissimo videoreportage effettuato da La Stampa nel cantiere della Fontana di Trevi: si parla di tutto fuorché di Fendi che ha sponsorizzato l’operazione), di ritorno di immagine, di decoro e di ordine?

Massimiliano Tonelli

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Massimiliano Tonelli

Massimiliano Tonelli

È laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Siena. Dal 1999 al 2011 è stato direttore della piattaforma editoriale cartacea e web Exibart. Direttore editoriale del Gambero Rosso dal 2012 al 2021. Ha moderato e preso parte come relatore a…

Scopri di più