Ecco come rivoluzionerò il Palazzo delle Esposizioni di Roma. Franco Benabè cerca di far fronte a risorse economiche dimezzate

“I quattrini non ci sono e, soprattutto, non ci saranno più neppure in futuro. Dunque occorre cambiare tutto”. Parla più da assessore alla cultura che da neo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Franco Bernabè, nella sua prima vera intervista “programmatica” rilasciata a Simona Antonucci sull’edizione del 15 aprile 2014 de Il Messaggero. “Bisogna innovare e servono […]

I quattrini non ci sono e, soprattutto, non ci saranno più neppure in futuro. Dunque occorre cambiare tutto”. Parla più da assessore alla cultura che da neo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Franco Bernabè, nella sua prima vera intervista “programmatica” rilasciata a Simona Antonucci sull’edizione del 15 aprile 2014 de Il Messaggero. “Bisogna innovare e servono sinergie”, spiega l’ex capo del Mart di Rovereto; e allora la domanda della giornalista sorge spontanea: “sinergie con chi? Unire Palazzo delle Esposizioni al Macro?”. E Bernabè non smentisce, anzi rilancia spiegando che il Comune detiene spazi come la Gam di Via Crispi, il Macro, le Scuderie, il Palazzo delle Esposizioni, la Pelanda. E tutti gli spazi sono senza soldi. Palaexpo, addirittura, rischia di dover affrontare il resto del 2014 e gli anni successivi con un finanziamento che si è di fatto dimezzato (“anche se dovremo recuperare il rapporto con la Fondazione Roma di Emmanuele Emanuele”, dice il manager), mentre il Macro, e non è una novità, “rischia di chiudere”. Insomma, mettere tutto insieme sotto un nuovo e unico soggetto giuridico da inventarsi. Un soggetto giuridico che abbia l’agibilità di contenere programmazioni e spazi diversificati (sebbene accomunati dalla proprietà comunale), che permetta a questi spazi di dialogare con gli spazi statali (Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Maxxi…) e che, soprattutto, renda appealing l’ingresso di capitali privati. Con quale modello? Quello, ad esempio, spiega Bernabè nell’intervista, della Fondazione Musica per Roma, che gestisce l’Auditorium di Renzo Piano.
Tutto per far fronte – ma questa cosa Bernabè forse non la sa, ma sicuramente non la dice – ad un ammanco economico che è puramente strumentale, voluto, eliminabile con un po’ di volontà. Come è possibile, infatti, che la città non riesca a trovare alcuni milioni di euro all’anno per sostenere le proprie istituzioni culturali, quando gli sprechi ammontano a centinaia di milioni ogni dodici mesi? Mala gestione, enormi brani di economia cittadina lasciati nelle mani del racket (commercio ambulante, cartelloni) e una città che preferisce non svilupparsi e stare ferma piuttosto che lottare, quando ce ne sarebbe bisogno, con soprintendenze e comitati del no. Giusto ieri si è scoperto che la città, la capitale del paese, di fatto regalava qualcosa come 70 milioni all’anno di affitti passivi (per i propri uffici e le proprie attività) a voraci proprietari immobiliari che locavano al Comune stabili a cifre da capogiro, ma ogni angolo della macchina comunale rappresenta decine di milioni all’anno di denari dilapidati e gestioni discutibili. Poi i soldi ovviamente finiscono (le tasse non si possono aumentare all’infinito) e si va a tagliare la cultura che così, come dice Bernabè, si deve “rivoluzionare”. Ma a doversi rivoluzionare non dovrebbero essere per prime le amministrazioni locali, Comune di Roma in primis?

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