Ragnar Kjartansson live a Milano: eccolo nel video inaugurare il riallestimento della sua installazione all’Hangar Bicocca, con un concerto live che spazia da Townes Van Zandt a Schubert. E striptease finale…

Ci sono i compassati, dolorosi e addolorati, completamente immersi nella condizione titanica di chi si carica le fatiche del mondo sulle spalle. I supereroi dell’arte, quelli per cui una personale richiede la stessa concentrazione di un’angioplastica e un’opera si tramuta sempre in una tragedia in tre atti. Non una commedia, vuoi mai si passasse per […]

Ci sono i compassati, dolorosi e addolorati, completamente immersi nella condizione titanica di chi si carica le fatiche del mondo sulle spalle. I supereroi dell’arte, quelli per cui una personale richiede la stessa concentrazione di un’angioplastica e un’opera si tramuta sempre in una tragedia in tre atti. Non una commedia, vuoi mai si passasse per frivoli. E poi c’è lui, Ragnar Kjartansson. E quelli come lui, si intende. Gente che non soffre della sindrome di Jorge da Burgos, che – udite udite – si diverte a fare ciò che fa. E soprattutto fa divertire gli altri. In due mesi di apertura al pubblico la sua The Visitors, installazione in multivisione dall’irresistibile matrice musicale, ha richiamato all’Hangar Bicocca 30mila persone (siamo alla media di mille accessi al giorno): non è sprecata allora l’espressione “a grande richiesta” per motivare il riallestimento dell’opera, lanciata da un evento live che ha visto l’artista mettere in scena il suo carnevalesco e irresistibile show. Si sono fatte vive 3.400 persone per la serata che ha visto Kjartansson giganteggiare nei panni di etilico menestrello sul trespolo effimero della Relatively New Sculpture costruita da quei pazzi dei Roth, intesi come Bjӧrn e Oddur, eredi della missione creativa dell’indimenticabile Dieter. Un concerto vero e proprio, festa performativa, con il prode Ragnar accompagnato dalla chitarra di Davið Þór Jónsson, anima compositiva del poema folk al centro di The Visitors, spalla perfetta di un artista che impazza come un folletto, arrampicandosi sulle installazioni in un profluvio di champagne e botti di petardi.

Si attacca con When She Don’t Need Me di Townes Van Zandt e si arriva al lieder di Franz Schubert An Die Musik, passando per quella Il cielo in una stanza già cantata al closing party della Biennale. Kjartansson stecca, stona, grida, abbaia, tortura la chitarra acustica come un forsennato; improvvisa un rocambolesco striptease, dimena le sue generose rotondità con una gioia liberatoria e infantile, mai così lontana dalla volgarità e dalla pacchianeria. Contagiosa. È un mago che strappa tutti, per la parentesi di un’oretta, al cemento che obnubila il presente; trasforma il tempo in un coriandolo, scongela la retorica ingessata dell’evento d’arte, della performance, e la trasforma in happening dionisiaco. Nel quale perdersi con una leggerezza mai così appagante.  

– Francesco Sala


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