Crisi, tunnel e macerie

Cos’è davvero la crisi? Di certo non è un tunnel da attraversare, come spesso ci viene detto, alla fine del quale ritrovare il vecchio mondo che avevamo lasciato. È una dolorosa e radicale forma di trasformazione. Dagli esiti imprevedibili. Che strumenti abbiamo? L’arte e la cultura possono essere una via.

“Fa uno strano effetto vedere con un occhio solo,
il tuo punto di vista cambia molto. Vedi davanti
ma non riesci a vedere intorno. Quello che
vedi non è sempre tutto quello che c’è.”
Vern Schillinger in Oz
(Tom Fontana, HBO, 1997-2003)

“La vittoria è sempre una distrazione.”
Mario Soldati, Ah, il Mondiale! (1982)

È un errore grossolano e molto pericoloso, quello – purtroppo molto diffuso – di pensare che la crisi prima o poi passerà. Che sia solo, in definitiva, una sospensione dell’ordine naturale delle cose, del loro stato normale; e che, una volta trascorsa, quello stesso ordine si ristabilirà. In realtà, nulla tornerà come prima: lo stesso “prima” non esiste e non esisterà più. Non c’è nessun “tunnel” (dal momento che questa è, a quanto pare, la metafora preferita della nostra classe dirigente) che va attraversato: a meno di non immaginarne uno in cui il mondo che troviamo all’uscita è profondamente cambiato rispetto a quello da cui siamo entrati – e a cambiarlo siamo stati proprio noi.
La crisi (come indica l’etimologia stessa del termine krisis: distinzione, valutazione, discernimento) è la transizione consapevole da uno stato della realtà a un altro, inevitabilmente diverso. La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione, che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione del mondo. E non c’è nulla come la cultura che riesca ad assolvere questa funzione, nella maniera più completa ed efficace: arte e cultura ci allenano a trovare soluzioni inedite a problemi che ci paiono insormontabili, mutando i punti di vista sui fenomeni, stabilendo connessioni tra eventi e idee, articolando livelli molteplici di interpretazione. Di certo, non è qualcosa che inventiamo oggi: duemilaquattrocento, mille, cinquecento e sessanta anni fa era un fatto ben noto. Solo che, periodicamente, tendiamo a dimenticarlo – e allora sono guai seri: dobbiamo impararlo di nuovo, impararlo subito e impararlo a fondo.
Compito dell’arte e della cultura dunque, in una fase di transizione epocale come quella che stiamo attraversando, non può che essere – dopo aver ratificato ed analizzato la fine dell’epoca precedente – immaginare, articolare e costruire l’epoca nuova. La cultura è il telaio, la struttura fondamentale di progettazione del presente e del futuro.

Brad Pitt in World War Z (2013)

Brad Pitt in World War Z (2013)

Occorre muoversi. Modificare le proprie abitudini, trasformare la propria vita non solo per sopravvivere alla crisi, ma per vivere bene nella crisi. Occorre fare della crisi la propria casa, la propria ecologia (e poi, se ci pensiamo bene, nei fatti è già così: che ci piaccia oppure no). Come dice Gerry Lane (Brad Pitt), il protagonista di World War Z (Marc Forster 2013): “Bisogna muoversi se si vuole sopravvivere. Movimiento es vida.” Il movimento è vita. Rinchiudersi nel proprio guscio, amplificare il corporativismo, recidere i legami con il mondo e con gli altri non garantisce alcuna salvezza. È anzi il modo più sicuro e rapido per condannarsi all’impermanenza.
Prendiamo la scena finale della camminata di Gerry nel corridoio (un altro tunnel…) verso gli zombie, dopo essersi inoculato una malattia mortale. Bisogna inocularsi una parte di morte, di dolore, di oscurità per arrivare davvero dall’altra parte e vincere. Questo attraversamento avviene sempre, obbligatoriamente, nel buio: è fatto di rischio. Se non si esplora e non si conosce questa zona oscura di noi stessi, della nostra vita, della realtà si rimane vittime, prigionieri degli schemi soliti (“i vivi” / “i morti”).
Se si rimane immobili – se ci si ferma – si è già finiti.

***

Le macerie non sono solo quelle fisiche; le macerie sono realmente tali solo quando sono anche immateriali. Solo quando, incorporate in esse, ci sono i nostri ricordi, pezzi di esistenza. Quando sono la rappresentazione – effettiva – della nostra vita che va in frantumi. Quando riducono in scorie e detriti ciò che era integro, intero, intatto. Infrastrutture, contenitori, spazi, ma anche sistemi di valori e relazioni, schemi interpretativi, costruzioni culturali e sociali, proiezioni immaginarie. Atmosfere psichiche. Convinzioni e tradizioni.
Le macerie costruiscono, da sole, un intero nuovo paesaggio – che se guardato da un altro punto di vista, da un’altra angolazione e attraverso una differente prospettiva, diventa una piattaforma su cui edificare, un luogo e un ambiente e un ecosistema in cui vivere. (E d’altra parte, non siamo stati addestrati proprio a questo fin da quando eravamo piccoli? Qual era il contesto variamente declinato dai nostri cartoni animati giapponesi preferiti, e dai film horror americani che ci spaventavano così piacevolmente?)

Carlo Carrà, Il gentiluomo ubriaco (1916)

Carlo Carrà, Il gentiluomo ubriaco (1916)

Tunnel: la luce non ci appartiene, non è quella che abbiamo immaginato e costruito noi; qualcun altro l’ha predisposta per noi. Non ci riconosciamo in essa.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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