Manabile per giovani artisti, I. Andrea Mastrovito

Gli abbonati ad Artribune Magazine l’hanno già ricevuto insieme al numero 15 del giornale. Un volume edito da Libri Aparte e curato da Andrea Mastrovito e Cinzia Benigni. Rivolto a chi l’arte intende farla, ma anche a chi la ama e la vuole capire più a fondo. Qui trovate l’intervento dello stesso Mastrovito, e nelle prossime settimane proporremo gli altri saggi. Illustrati da giovani artisti, va da sé.

I. Le scommesse hanno sempre rivestito un’importanza fondamentale nella mia vita, e per fortuna che non scommetto quasi mai.
Per colpa di una scommessa (non mia) ho perso il mio idolo più grande (Cristiano Doni, stendiamo un velo pietoso). Per una scommessa ho corso nudo di notte per le strade del mio paese. Per una scommessa con un paio di compari mi innamorai per la prima volta (non dei miei due compari, ma della Rossa, una bellezza dell’accademia di tanti tanti anni fa, che poi non me la diede mai, dannazione).
E, andando indietro con gli anni, per una scommessa mi ritrovo, oggi, artista.
Eravamo io e Zizi, il mio amico fraterno, in un parcheggio fuori dal Liceo Scientifico, appena usciti dall’esame di maturità. Prima di salutarci, iniziava l’estate cazzo, ci sediamo e guardiamo indietro ai cinque anni passati assieme sui banchi di scuola, pensando ai professori pazzi, maniaci sessuali e pornoattori che avevamo avuto, alle nostre compagne di classe, fighe (poche, pochissime) e cesse (pota tutte le altre ovvero quasi tutte), a quella volta in cui avevo accompagnato Zizi al pronto soccorso perchè aveva ingerito una scatola di graffette per saltare l’interrogazione di francese, o quando fummo convocati dal consiglio studentesco per razzismo contro i bresciani nel nostro giornalino abusivo di classe. O quando ancora tirammo su i primi soldi vendendo le fotocopie di un calendario erotico che avevo disegnato copiando le modelle di Max.
Così Zizi mi disse che insomma, sì, ero troppo bravo a disegnare e poi non ero scemo, non ero ignorante, e che quindi dovevo fare l’artista, dovevo fare l’accademia di belle arti.
Io ci pensai su, cazzo ero uscito con 57/60, mica male, e l’accademia mi sembrava un buco nero dal quale non sarei mai più venuto fuori. E appunto decisi di provarci. Ci scommisi su: se io facevo l’accademia, lui si doveva iscrivere a Lettere indirizzo Cinema e una volta laureati avremmo fatto un megafilm insieme.
E vabbè. Sono passati quindici anni e sto ancora aspettando che si laureii.*

*Un’altra versione vuole che io abbia scelto l’Accademia perché in fin dei conti era la scuola più vicina a casa mia e soprattutto allo stadio. Ma è più romantico credere alla versione precedente.

Andrea Mastrovito & Cinzia Benigni (a cura di) - Manabile per giovani artisti

Andrea Mastrovito & Cinzia Benigni (a cura di) – Manabile per giovani artisti

II. I quattro anni di accademia li posso riassumere in una frase: ho imparato poco, e quel che ho imparato l’ho imparato sbagliando.
L’accademia, in realtà, per come è strutturata oggi, non è un luogo dove imparare bensì un luogo dove prendere coscienza, consapevolezza.
E uno dei modi principali per prendere coscienza (di sè, dell’altro, del mondo attorno) è l’errore, dacchè l’errore ci mette di fronte ad una scelta, che non  è quella tra perseverare o correggersi ma, prima ancora, tra rendersi conto che si sta sbagliando e continuare senza accorgersene.
D’altronde errare è umano. E l’uomo per eccellenza, diceva Baudelaire, è l’artista (vabbè in realtà diceva che l’uomo per eccellenza era il poeta, ma non vale, lui era di parte, quantomeno quanto lo sono io e voi che leggete).
Per questo quando ho pensato a due artisti – due amici – da invitare affinchè portassero la loro esperienza, il loro fervore ai ragazzi dell’accademia, mi sono venuti in mente Luca Francesconi e Gian Maria Tosatti che, come leggerete, hanno iniziato da tutt’altra parte la loro avventura nella vita post-scolastica, virando poi verso l’arte ed il suo mondo dopo aver intrapreso, anche con successo, altre strade. Ma imparando, da quelle strade, cosa non erano e cosa non volevano.
Per questo motivo, ancora, mi è venuto in mente di scrivere un decalogo. Sì. Dieci errori che ho fatto (e che faccio ancora, ovviamente) e che, se da un lato mi privano di parecchie soddisfazioni, dall’altro mi spingono a continuare a cercare cosa c’è oltre quegli errori.
O meglio, cosa c’è DENTRO quegli errori.

Matteo Maino, E tutti guardano il totem, 2012

Matteo Maino, E tutti guardano il totem, 2012

III. Decalogo
1. Le femmine (o i maschi, dipende)
Diciamo che l’errore più grosso con le femmine l’ho fatto una sera di giugno, quando mi ritrovai con la Rossa, la più bella dell’accademia, a giocare a calcio uno contro uno in un prato in Città Alta. Lei davanti a me, la scarto, lei mi insegue e mi afferra. Cadiamo a terra: uno sopra l’altro, lei sopra di me, ride e avvicina le labbra alle mie. E’ estate, i grilli cantano e la brezza è fresca. Io guardo le sue labbra, la luna e mi chiedo: che cazzo devo fare? Grazie a Dio con la coda dell’occhio vedo rotolare il pallone. Con uno spintone la caccio via, conquisto il pallone e lo insacco in rete spingendolo tra l’altro con le terga in gesto di scherno. 1 a 0! Più vista, lei.
All’epoca, ripensai a quella sera tante tante volte, mangiandomi le mani. Ma poi realizzai che, i quegli anni, tra l’adolescenza e la gioventù, era meglio lasciar perdere le morose. Sì. Fanno perdere un sacco di tempo. Meglio pensare solo a pitturare, mi dissi. E così cominciai a fare solo quello, anche perchè in realtà una morosa ce l’avevo sempre avuta, l’Atalanta.
Ecco, direi che se uno vuole far l’artista, una squadra di calcio è la morosa ideale.
Non ti tradisce mai, non ti rompe mai i coglioni, se perde ti incazzi ma non è colpa sua, è colpa del sistema, degli arbitri, dei giocatori ignoranti, del presidente, della sfiga etc… Le morose (o i morosi, ovviamente), invece, specie quelle che ci si porta dietro dal paesino, dai tempi dell’oratorio o delle superiori, rappresentano un retaggio del passato e spesso sono un ostacolo ai progetti per il futuro.
Sì osti, lo so che sono cattivo a dire così, forse dovevo semplicemente scopare di più, da giovine.

2. Milano
Sì, parlo di Milano perché stiamo a Bergamo. Dobbiamo fare le nozze coi fichi secchi, d’altronde: la situazione italiana, al momento, è quella che è e ci si deve accontentare di poco poco.
Dicevo di Milano: mi hanno sempre detto tutti che bisognava stare a Milano, respirare l’atmosfera milanese.
Io ricordo che per anni Milano era semplicemente San Siro e le trasferte con la Curva Nord. Niente di più. Non ci siamo mai piaciuti. Sì insomma quella tipica roba provinciale dei bergamaschi. Mea culpa. Così sono rimasto sempre piuttosto borderline, rispetto al panorama dei giovani artisti militanti del sistema dell’arte. Risultato: ho fatto una fatica boia e ancora oggi devo fare i salti mortali affinchè il mio lavoro venga riconosciuto ed apprezzato (…) nell’ambiente “bene” milanese, benchè poi abbia sempre lavorato, e con buoni risultati, con alcune gallerie meneghine. Questo per due motivi: uno perchè ho, fondamentalmente, una base pittorica (ne parlo in seguito) e l’altro perchè, appunto, mi sono visto bene dall’entrare nei salotti milanesi dell’arte, semplicemente non ne avevo voglia.
Alla fine ci ho rinunciato. Ho preferito lavorare a Ginevra, Parigi e New York. Devo dire che sono molto ma molto più interessanti.
Comunque, resta il fatto che se si vuole essere artisti, oggi, non è pensabile stare qui a Bergamo. O a Milano. Bisogna uscire, vedere e conoscere. E nel frattempo fare. Sì lo so che è un casino. Difatti troverete sempre artisti incasinati.

Diego Ferrari, Poker Face 2, 2012

Diego Ferrari, Poker Face 2, 2012

3. I galleristi
A 23 anni feci una di quelle cazzate mostruose.
Non faccio nomi, ma insomma ero appena uscito dall’accademia e mi chiamò uno dei 3-4 galleristi più importanti d’Italia. Sì uno di quelli fighi insomma. Ignorante come ero, manco lo sapevo, chi fosse.
Così andai a presentargli i miei lavori senza neanche operare una piccola scelta: gli portai tutto, dai disegni del liceo alle ultime – centinaia – prove di stampa, riuscite o non riuscite, in una mega cartelletta che avevo ancora dalle medie, un casino insomma. Risultato: “Bravo, bravo – mi fa lui – perchè non vai a mostrare le tue robe a Via Farini?” Ovvero: “Torna in accademia, da bravo”. Più visto.
Se avessi cominciato a lavorare con lui sarei diventato, da subito, uno degli artisti più fichi in circolazione: è automatico, quando entri in certi giri, se hai un minimo di testa. E così invece ho dovuto rimboccarmi le maniche e lavorare. Lavorare e lavorare. Non solo su come presentare il lavoro, ma sul lavoro stesso. Pulirlo e semplificarlo. Osti, e sono ancora dietro a lavorarci, dopotutto. Non si finisce mai.

4. Il Lavoro
Per “lavoro” intendiamo sempre “l’opera”. Vallo a spiegare ai parenti (specie i parenti pugliesi) che quello che fai è effettivamente un lavoro: anche se esponi nei musei di mezzo mondo e ti fai un culo quadro dalla mattina alla mattina, rimarrai sempre quello che non lavora, quello che c’ha l’hobby.
Ecco ho sacrificato un po’ tutto sull’altare del lavoro. Amici, salute, soldi, morose. E  appunto una sera ero triste, a New York, lontano da tutti e lontano dalla morosa che, nel frattempo, me ne combinava di tutti i colori assieme ad un napoletano… Mi invitarono a cena in un locale fichetto. Io zero voglia di andarci, ma suvvia, c’era il mio amico Giuseppe Pero.
Pota mi siedo al tavolo. Mi giro e dico: porcaputtana. Eravamo ad un tavolino rotondo, per poche persone, e accanto a me Marina Abramovic.
Donna affascinante come poche, smisi di pensare alla morosina e cominciai a parlarle. Una cosa, mi disse, fondamentalmente: “Sai Andrea qual è l’unica cosa che conta?” e io: “Boh, dimmi!”. E lei: “Il lavoro. Poi il lavoro. E poi ancora il lavoro. Basta. Tutto il resto per noi è nulla”.
Dannazione, avrà pure avuto sessantatrè anni ma se me lo chiedeva glielo davo lì sul tavolo.
Lì sì che ho sbagliato a non farlo.

Matteo Maino, 24 times per second truth, speakers, cassa in plexiglas, 2013

Matteo Maino, 24 times per second truth, speakers, cassa in plexiglas, 2013

5. Verginità
Non si tratta di pruderie o deviazioni. Quando si parla di verginità nel mondo dell’arte, si parla di quel fenomeno particolare italiano per il quale se hai esposto con certe gallerie ti sei macchiato e non potrai MAI esporre in altre gallerie.
Succede solo da noi e ovviamente io in gioventù, ignorando questa e tutte le altre regole, ho esposto con chi mi pareva e piaceva. Sì senza protezioni. Libertinaggio. Chiaramente poi certe non-scelte si pagano, e quindi ci si vede preclusi certi luoghi e certe possibilità.
L’unica maniera per ritornare “immacolati” è 1) scomparire dalle fiere e dalle mostre per anni; 2) andare all’estero, ottenere riconoscimenti enormi e poi rientrare.
Fate un po’ voi se vi sembra normale sta cosa. Comunque, se vi siete macchiati, le strade sono queste due. Anche se ultimamente, per quanto sto vedendo, la figura del gallerista ha davvero perso molto del suo potere a vantaggio delle figure dei curatori e dei collezionisti, oltre che delle case d’asta (ma è un discorso che in questo manabile non ci riguarda).

6. Pittura / non Pittura
Quando sono entrato in accademia pensavo che il Dada fosse l’avanguardia. Sì insomma, qualcosa di super ultra moderno. Pazienza se era una roba di novant’anni prima. Credevo ci fosse la pittura, e poco altro.
Poi Arienti un giorno mi disse: guarda che non è necessario dipingere sempre ad olio.
E allora cominciai a dipingere con gli smalti, si faceva prima.
In seguito il mio approccio pittorico si è evoluto ed in pochi anni ha preso una forma prettamente installativa ed ambientale, eliminando pressochè in toto il supporto della tela, del colore e della pittura stessa.
Il problema è che dipingere è sbagliato.
Sì, fondamentalmente, nel nostro Paese la pittura è guardata come fosse una puttana. Solo in Italia, sia chiaro. Principalmente perchè con la pittura ci si può guadagnare da vivere, specie in un mercato dell’arte che, qui da noi, è sempre florido, grazie a Dio.
Certo, poi se ponete la questione del bistrattamento della pittura, vi verrà risposto che non è vero, che ci sono più mostre di pittura che di qualsiasi altro tipo etc etc… tutto vero, ma quante di queste mostre sono museali? Poche, molto poche…
E così, se avete una buona base pittorica – e soprattutto di disegno – è probabile che possiate anche campare di quel che fate, ma è pressochè impossibile che il gotha odierno dell’arte italiana vi prenda in considerazione. Già, perchè il retaggio concettualistico degli anni Sessanta e Settanta – rimpianti come epoca d’oro del sistema dell’arte italiano – pregna ancora indissolubilmente quei pochi gangli che, nella penisola, decidono come muovere e promuovere le novità del panorama artistico nazionale. Se sapete disegnare, quindi, potete scordarvi pure di diventare garuttini. Rimarrete stupidi, stupidi come i pittori.

Diego Ferrari, Tieni Lontano il più possibile i figli, 2013

Diego Ferrari, Tieni Lontano il più possibile i figli, 2013

7. Le mostre
Da giovine avrei potuto clonare il classico “O vittoria o morte” del Che con “O vittoria o mostre”, come mi diceva Francesconi. Pota penso di aver detto sì a praticamente chiunque mi chiedesse di fare una mostra. Il che, da un lato, mi ha aiutato a produrre continuamente e quindi a raffinare il mio lavoro. Dall’altro, però, spesso, mi ha risucchiato in un vortice che, oltre che sputtanare la famosa “verginità” di cui sopra, mi ha piegato in due fisicamente. Per colpa delle mostre e del mancato sonno mi sono rotto i legamenti, la rotula e tutti i menischi del ginocchio sinistro giocando a calcetto dopo un’inaugurazione; mi sono procurato un’emorragia cerebrale dopo l’ottava personale in otto mesi; ho perso un sacco di capelli dannazione; non contento, l’anno scorso ho deciso di fare l’ennesimo tour de force e alla fine dopo sei personali in quattro mesi mi sono ritrovato a fare tre terapie antibiotiche di fila per farmi passare la febbre e, non contento, subito dopo mi son preso la colite e ancora mi sto aggiustando. Dannazione era meglio fare l’ingegnere, come diceva mia mamma.

8. Il Vile Danaro
C’è una bella lettera di Cai Quo Quiang, dentro sto libercolo fondamentale che è Letters to a young artist: da giovane, dice, per campare dipingeva paesaggi classici cinesi e li vendeva; nel frattempo progettava i suoi primi lavori pirotecnici e le installazioni, grazie ai soldi ricavati con i quadretti.
Il rapporto col denaro per noi che vediamo ancora l’artista non come un mestiere ma come una condizione (e sfido io a dire il contrario) è sempre un grosso problema, soprattutto in un sistema dell’arte che, ad oggi, fonda i suoi parametri maggiori sui risultati delle aste e, quindi, sulle speculazioni, ricalcando il modello dei mercati finanziari.
Ma senza stare a scomodare i grandi e i grandissimi nomi del contemporaneo, la questione denaro è fondante anche e soprattutto per chi comincia. Ricordo bene che all’accademia non avevo una lira (c’erano ancora le lire) e rubavo un sacco di cose, dal rame al linoleum ai colori alle tele ai telai. Tutto. D’altronde lo diceva Picasso: un buon artista copia, un grande artista ruba. Anche perchè, pur avendo cominciato ad esporre in varie gallerie subito dopo la fine degli studi, ci ho messo QUATTRO anni – e sei personali – prima di guadagnarci veramente qualcosa.
Calcolate che quando un’opera viene venduta, di solito la si vende con uno sconto del 20%, per venire incontro al collezionista. E un altro 20% se ne va in IVA. Poi arriva il gallerista, che si prende la metà del restante 60%. All’artista cosa rimane? Il 30% del lavoro iniziale. Togliamoci anche solo un 5% di spese per i materiali, ecco, sul restante 25% bisogna pagarci le tasse. Morale: solo il 12% o meno, vi rimane in tasca. E questo quando siete fortunati, e vi pagano. Sì, perchè poi c’è sta questione, che i collezionisti pagano dilazionando in mesi. E i galleristi in anni. Quindi mettetevi il cuore in pace, l’errore è inevitabile. Come mi diceva il buon Cingolani, alla fine dopo venti o trent’anni di lavoro un qualsiasi artista si rende conto che ha lasciato ai propri galleristi l’equivalente di un appartamento in centro a Milano.

Matteo Maino, 24 times per second truth, speakers, cassa in plexiglas, 2013

Matteo Maino, 24 times per second truth, speakers, cassa in plexiglas, 2013

9. I concorsi e le residenze
Ecco, un errore che non ho mai fatto, stranamente, è stato quello di credere ai concorsi. I concorsi non portano praticamente a nulla. Ci sono ben pochi Premi e Concorsi che valgano qualcosa, qui in Italia, e ci si arriva solamente con un buon curriculum di mostre, quasi mai da giovane virgulto d’accademia. E anche lì, ci si partecipa sapendo già l’esito, in qualche modo, perché in una maniera o nell’altra si sa sempre chi vincerà già prima, un po’ come il Festival di Sanremo.
Però una cosa è vera, d’altro canto: se fate domanda per un visto o una residenza d’artista negli Stati Uniti, aver vinto dei concorsi è di fondamentale importanza. Anche se fosse il premio della sagra del paese, per gli americani è qualcosa di straordinario. D’altronde calcolate che quello è un paese in cui credono che un’Alfa Romeo valga quanto una Ferrari solo perchè è rossa.

10. Le parole che (non) ti ho detto
Sostanzialmente uno potrebbe dire: se devo spiegare la mia opera, allora c’è qualcosa che non va, l’opera non funziona. Sì, da un lato è un’ipotesi accettabile. Spesso le parole servono a riempire vuoti di contenuto. Ma dall’altro, il non saper parlare di cosa si fa è inevitabilmente limitante. A maggior ragione in un momento storico in cui internet e l’immagine bidimensionale veicolano pressoché interamente il messaggio degli artisti (e non solo). Così capita spesso di ritrovarsi a spiegare i motivi e le storie dietro a certi lavori. Una volta però ho esagerato. Qualche anno fa mi contatta una mia cara amica che è appena stata assunta in un famoso settimanale femminile. Ha saputo che sto realizzando un mega progetto per una famiglia molto in vista e molto riservata e mi chiede di parlarle del progetto e soprattutto mi chiede particolari privati – quelli che ho evinto in un paio di incontri con loro – sulla coppia, assicurandomi – mentendo – che ha già sentito i diretti interessati e sono felicissimi che io racconti di loro alla stampa. Morale: esce l’articolo e per poco non vengo denunciato per diffamazione e solo per miracolo, dopo mesi di spiegazioni,  non perdo il lavoro. La giornalista? Più sentita.
Quindi va bene parlare di quel che si fa. Va bene, ma attenzione ai giornalisti. Non è un caso che ogni tanto, sui muri della città, troviate la scritta “giornalisti pezzi di merda…”

11. (bonus track) I rutti
Sì lo so, sembrerà inutile ricordarvelo, ma badate bene, state attenti a non ruttare mai in faccia alla vostra gallerista durante un vernissage, a meno che non siate super famosissimi. Non è bello.

Andrea Mastrovito

Bibliografia
AA. VV., Letters to a young artist, Darte Publishing LLC, 2006
Damien Hirst, Burn Gordon, Manuale per giovani artisti. L’arte raccontata da Damien Hirst, Postmedia Books, 2004
Marco Meneguzzo, Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze), Johan & Levi, 2012
Easy Art –Arienti, Cingolani e Mastrovito: maestri ed allievo a confronto pdf scaricabile al seguente link: http://www.associazionetestori.it/news.php?idn=846
AA. VV., How to make it in the art world, in The New York Magazine del 22 Aprile 2012, scaricabile al seguente link: http://nymag.com/arts/art/rules/
Francesco Bonami, Mamma voglio fare l’artista! Istruzioni per evitare delusioni, Electa, 2013
John Baldessari, Tips for artists who want to sell, 1966-68

Andrea Mastrovito & Cinzia Benigni (a cura di) – Manabile per giovani artisti
Libri Aparte, Bergamo 2013
Pagg. 120, € 8
ISBN 9788895059280
http://www.libriaparte.it/

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Andrea Mastrovito

Andrea Mastrovito

Nato a Bergamo (1978) si è diplomato nel 2001 presso l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo. Ha vinto il Premio New York nel 2007 e il Premio Moroso nel 2012; negli ultimi anni il suo lavoro è stato esposto…

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