Giovanni Lindo Ferretti al MUSE di Trento: in scena nella hall del nuovo museo il suo “Bella gente d’Appennino”, recital che abbraccia le più ancestrali tradizioni della cultura popolare montana. E dunque italiana

Tutto il mondo è paese. Tutta Italia è montagna. Cambiano suoni e accenti, riti e nomi; resta invariata la sostanza di genti dure e crude; sapori semplici, odori aspri – di terra, sudore, fatica, anche di morte – eppure dolcissimi. Da quando ha deposto le armi del guerriero nichilista, Giovanni Lindo Ferretti ha fatto proprie […]

Tutto il mondo è paese. Tutta Italia è montagna. Cambiano suoni e accenti, riti e nomi; resta invariata la sostanza di genti dure e crude; sapori semplici, odori aspri – di terra, sudore, fatica, anche di morte – eppure dolcissimi. Da quando ha deposto le armi del guerriero nichilista, Giovanni Lindo Ferretti ha fatto proprie quelle della poesia. Un Ermanno Olmi della parola, un laico sciamano cattolico, non così ultra come ritengono certi fan della prima e della seconda ora, delusi per un cambio di rotta che avvertono come doloroso tradimento. Ferretti porta una montagna, la sua, alle pendici di un’altra. Recital mattutino, a Trento, per Bella Gente d’Appennino, spettacolo nato nel 2009 come reading dell’omonimo libro edito da Mondadori; arricchito con il passare del tempo di nuovi passaggi, cambi di traiettoria, aggiornamenti. Uno show mutevole e cangiante, che fa suonare la sveglia in un MUSE ancora intorpidito dalla notte bianca che ha accompagnato l’opening del museo.
La voce di Ferretti si muove su due registri gemelli, quello caldo di un canto a tratti monodico e a tratti invece splendidamente modulato; e quello di una narrazione intima, evocativa delle tecniche affabulatorie dei vecchi cantastorie, con rime e passaggi a tessere melodie impercettibili all’orecchio ma perfettamente leggibili dal cuore. Si intrecciano al violino di Ezio Bonacelli le storie di uomini e donne senza nome, accomunati dalla ritualità di poveri semplici gesti; si confonde con il profumo del parquet fresco di posa la suggestione di erbe macerate, acidi afrori di stalla stemperati da prati costellati di fiori. Sfilano in un ricordo che si traduce in memoria collettiva Rosalinda e suo figlio Ezio, esule per forza di cose, frutto di una sola notte d’amore che  Ferretti sa descrivere con sublime poesia. Quasi fosse stato lì, partecipe; quasi fosse stato contemporaneamente lui e lei, e pure l’altro: quel bambino concepito e subito nato, nella consapevolezza di una madre che ha sentito, capito e amato all’istante.
Si chiude con un insalubre bagno nel presente, ritorno all’attualità dopo la lunga digressione tra le fronde ombrose del ricordo. Il monito di Ferretti è feroce, il santone indossa il saio lugubre del Savonarola: arriveranno gli “ufo robot”, la democrazia è “una connessione a banda larga”; guai a noi che abbiamo fatto della domenica, tempo di pace, “un giorno come tutti gli altri” . E guai alle morte ideologie, ai falsi profeti del populismo; a chi predica il kilometro zero e poi vive su un aereo. Guai a noi, tanti.

– Francesco Sala


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Francesco Sala

Francesco Sala

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