Diego Perrone non è debole, è nudo. Intervista pre-Biennale

A pochi giorni dall’inaugurazione ufficiale della Biennale di Venezia, abbiamo intervistato Diego Perrone. Alla seconda volta a Venezia, indaga con noi la sua opera e il sistema dell'arte contemporanea e dei suoi attori. Consegnandoci anche qualche anticipazione.

Da molto tempo Massimiliano Gioni segue il tuo lavoro, ma ti aspettavi che ti chiamasse per questa Biennale, dopo che già nel 2003 ti aveva chiamato per La Zona? Come hai accolto la notizia?
Ovviamente sono molto contento, stimo molto il lavoro di Massimiliano.

Ali Subotnick, Maurizio Cattelan e lo stesso Gioni ti avevano invitato anche alla loro Biennale di Berlino nel 2006. Che ricordo hai di quell’esperienza? Cosa è cambiato tra 2003, 2006 e oggi?
Quando si è parte di contesti così ampi e vitali, si vivono formidabili esperienze che ti formano moltissimo. Quello che per me è cambiato in questi anni è soprattutto una maggiore consapevolezza sulle mie capacità lavorative.

Tu sei del 1970 e già dieci anni fa avevi esposto in sedi assai prestigiose. Cosa diresti a questo proposito ai tanti giovani artisti che aspirano a un percorso di successo? Quanto contano la fortuna, i critici e gli appoggi esterni, e quanto il lavoro individuale?
Fortuna, sostegno dei critici e appoggi esterni sono certamente elementi molto utili, poi però ognuno ha la sua storia e un suo percorso. I grandi risultati in genere arrivano con naturalezza. Non è solo una questione di contatti, ma di avere feeling con essi.

Diego Perrone, La fusione della campana, 2005 - Courtesy Massimo De Carlo, Milano

Diego Perrone, La fusione della campana, 2005 – Courtesy Massimo De Carlo, Milano

Veniamo al tuo lavoro. Mi sembra che tutte le tue opere vogliano recuperare qualcosa che nella nostra vita viene trascurato, dagli sguardi alle periferie urbane di Sironi/Pasolini (Il Merda) ai processi di fusione di una campana (La fusione della campana), al ricordo dei suoni di una frana (Una mucca senza faccia rotola nel cuore). Nella società di oggi, che non fa altro che sommergerci di stimoli, noi possiamo solo ri-scoprire?
Non credo di toccare temi che normalmente sono trascurati, sia che si tratti di Sironi, di Pasolini oppure di una frana. Trovo anzi che siano di grande attualità ed è proprio per questo che me ne sono servito, non per riscoprirli ma per reinventarli.

In che modo si lega questo discorso con la ripresa della forma dell’orecchio che spesso ricorre nelle tue opere?
Non c’è un legame preciso, quando penso per esempio a Sironi o alle sue periferie urbane sono quadri che a me piacciono veramente. Ovviamente tengo conto del peso e del contesto storico, ma principalmente ne sono molto coinvolto: la stessa cosa accade nella pratica del mio lavoro, così non sono tanto interessato al senso dell’orecchio, ma all’orecchio stesso.

Se la mettiamo in termini un po’ banali, ne La fusione della campana sembri dire che i processi sono più importanti degli obiettivi finali. Pensi che davvero questa sia una massima che dovremmo tenere presente nella nostra azione come uomini?
Nella Fusione della Campana quello che mi interessava era ottenere una forma-scultura che derivasse da varie fasi-processo di lavorazione di una campana. La Fusione della Campana per me è una forma che deriva dalla descrizione di un procedimento tecnico. Dei processi nella nostra azione come uomini non mi importa molto, da questo punto di vista mi interessa piuttosto l’intensità del metodo e dell’approccio al lavoro.

Diego Perrone, Totò nudo, 2005 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Diego Perrone, Totò nudo, 2005 – Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Che rapporto c’è tra questo problema e la morte, che tu in passato – con una bellissima metafora – paragonasti al punto in cui finiva la Terra per chi, un tempo, credeva che fosse piatta?
La morte è un argomento che mi ha molto affascinato perché è certa e concreta come un dato, ma la si può anche immaginare e pensare come un grande argomento di evasione ed eversione. Quando ho realizzato l’animazione Vicino a Torino muore un cane vecchio – che descrive gli ultimi istanti di vita di un cane, completamente realizzato in 3D – la mia priorità è stata proprio quella di lavorare su questo doppio. Ho cercato di ricostruire gli istanti vuoti di una morte non violenta in maniera ludica e concreta, e quindi il dato, tagliando fuori la narrazione; poi ho caricato il soggetto e lo scenario con forti atmosfere pittoriche e con le fredde luci di un’alba invernale.

Ma oggi l’uomo, al di là della patina di immortalità di cui è solito rivestirsi, ti sembra debole come il tuo Totò nudo?
L’animazione che ho realizzato subito dopo Vicino a Torino muore un cane vecchio è appunto Totò nudo. Tutto si svolgeva in uno scenario molto simile e con le stesse luci, quasi come se i luoghi e l’audio tra i due video fossero intercambiabili. Quello che succede però è che Totò, ricostruito in 3D, si spoglia in mezzo al bosco in maniera molto naturale. Ma Totò non è debole, è nudo. Forse è la sua icona che si indebolisce se la si spoglia.

“Immaginare la lentezza come una forma fisica solida e sicura, e la velocità al contrario come instabile e precaria”: sono parole tue. Mi viene da chiederti se essere artisti significhi anche un po’ questo: pensare che tutto possa avere una forma…
Non generalizzerei così tanto, forse nel mio caso preferirei dire che cerco di inventare forme o possibilità che non ci sono.

Diego Perrone, Come suggestionati da quello che dietro rimane fermo, 2000 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Diego Perrone, Come suggestionati da quello che dietro rimane fermo, 2000 – Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Come si coniuga il tuo fare arte con le tradizioni? In una vecchia intervista hai parlato di una tradizione italiana “che appoggia la testa sul ceppo, pronta per la decapitazione, con gli occhioni dolci da agnellone ferito che invocano clemenza”. La pensi ancora così?
Probabilmente mi riferivo a un tipo di tradizione rurale che è anche quella che più mi appartiene. Anche ora penso che abbia perso la sua funzione di colonna portante della formazione e che sia in piena crisi di identità. La perdita di centralità di questa sorta di faro ha creato ibridi non sempre ben riusciti.

In che direzione sta andando il tuo lavoro ultimamente? Ci puoi anticipare qualcosa su cosa porterai a Venezia?
Due nuove sculture. Sono interpretazioni e variazioni di una scultura eseguita da Adolfo Wildt nei primi anni del Novecento. Una è stata modellata in plastilina e poi stampata in resina, l’altra scavata da un blocco di plastica con martello e scalpello.

Quest’idea del Palazzo Enciclopedico sta facendo parlare di sé già da molto tempo prima dell’inaugurazione. Tu che aspettative hai?
Gli artisti coinvolti mi piacciono e non vedo l’ora di vederla.

Giulio Dalvit

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Giulio Dalvit

Giulio Dalvit

Nato nel 1991 a Milano, ha studiato Lettere e si è laureato in Storia dell’arte moderna alla Statale di Milano. Ha collaborato anche con alcuni artisti alla realizzazione di mostre milanesi tra Palazzo Reale, il Museo del 900 e Palazzo…

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