Una fatwa al contrario: è quella che lancia Shirin Neshat contro il regime degli ayatollah. Dalla Berlinale l’artista accusa: “Non ci sarà una nuova generazione di cineasti iraniani”

Un nuovo Abbas Kiarostami? Scordatevelo. Toni apocalittici quelli che Shirin Neshat (Qazvin, 1957) usa dalla Berlinale: l’artista, in giuria alla 63esima edizione del festival del cinema, lamenta le recrudescenze della censura nel regime degli ayatollah. “Non ci sarà una nuova generazione di cineasti iraniani” commenta. “Possono lavorare solo all’interno del paese, ma poi nulla riesce […]

Un nuovo Abbas Kiarostami? Scordatevelo. Toni apocalittici quelli che Shirin Neshat (Qazvin, 1957) usa dalla Berlinale: l’artista, in giuria alla 63esima edizione del festival del cinema, lamenta le recrudescenze della censura nel regime degli ayatollah. “Non ci sarà una nuova generazione di cineasti iraniani” commenta. “Possono lavorare solo all’interno del paese, ma poi nulla riesce ad uscire fuori: giudizio pesantissimo, che arriva a integrare la presentazione di Closed Curtain, film con cui il connazionale Jafar Panahi si presenta in concorso proprio a Berlino. Sfidando, apertamente, Ahmadinejad. Perché Panahi, arrestato per aver partecipato alle manifestazioni di piazza della primavera 2010, viene condannato a sei anni di carcere, ma soprattutto a venti di “interdizione” dal lavoro di regista: una museruola, quella annodata dalla polizia politica iraniana, che impone al cineasta il silenzio assoluto. Niente interviste, niente produzioni; ovviamente niente viaggi all’estero. Close Curtain viola l’imposizione e racconta proprio la prigionia di Panahi: uno schiaffo all’autorità del regime che, considerata la presenza di Neshat in giuria, lancia la pellicola tra i probabili vincitori. Anche se l’artista stessa assicura che il film sarà giudicato: “come opera d’arte e non per meriti politici”. Ci crediamo?

Francesco Sala

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