Presente e futuro di Artefiera

Ha creato un certo clamore la lettera aperta di Antonio Grulli pubblicata qualche giorno fa sull’atpdiary. Alfredo Cramerotti lo ha intervistato, per capire come si potrebbe imprimere una svolta alla città di Bologna, e ad Artefiera in particolare. Magari con una quadriennale che faccia il punto sullo stato dell’arte italiana?

Ho letto la tua riflessione “a caldo” sul blog Apt dopo la presentazione di Artefiera. Ne viene fuori una certa “ansia da prestazione” da parte istituzionale. Sbaglio? A volte però una certa ansia può essere produttiva…
Guarda, non credo nemmeno ci sia stata ansia da prestazione. Semplicemente hanno dato un quadro completamente inventato della realtà delle cose per mantenere una posizione di potere. Artefiera è stata presentata come viva e vegeta nonostante la crisi. Non solo, il 2013 viene definito l’anno della ripartenza. Si dice che per scelta (!) si è voluto puntare sulle gallerie italiane e che si è voluto dare attenzione alle nuove giovani realtà di ricerca (!!). Tutte balle, ovviamente: la fiera di quest’anno farà schifo senza dubbio, lo sanno tutti e tutti se lo dicono di nascosto. Il fatto che venga presentata una realtà completamente inventata è possibile solo perché i media locali sono di livello talmente basso da non essere in grado di capire come vanno le cose e si limitano, in questi casi, a ripetere quello che gli viene detto. La stampa di settore non ne parla per evitare di farsi dei nemici e, in alcuni casi, perché se Artefiera sparisce ci guadagneranno in molti. Quindi lasciano che ci ammazziamo da soli. Dico tutto questo proprio perché tengo a questa città e spero che le cose non vadano a rotoli.

Parliamo di Bologna allora.
In realtà la città è ancora molto sana e vivace intellettualmente durante tutto l’anno. E nei giorni della fiera partecipa agli eventi e vuole andare a visitare gli stand e gli eventi in giro per il centro. Io questa cosa non l’ho vista da nessun’altra parte, né a Londra né a Basilea ad esempio, dove vedi quasi solo addetti ai lavori. Oltretutto Bologna economicamente ancora potrebbe dire la sua e questo sarebbe importante per tutto il Paese. Il problema è che, anche quando i soldi ci sono, vengono spesi molto male e situazioni come Artefiera servono anche per indirizzare le energie di una città intera. Ovviamente si tratta di un argomento che dovrebbe essere trattato anche dai quotidiani nazionali, ma in Italia è fantascienza. Ne abbiamo parlato molto durante i progetti sulla critica che ho fatto negli anni con Davide Ferri. Quando le terze pagine dei quotidiani nazionali parlano di arte, nel 90% dei casi lo fanno in un modo ridicolo.

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La fontana del Nettuno, a Bologna

È interessante quello che dici a proposito della partecipazione della città agli eventi della fiera. L’ho riscontrato anch’io quando vivevo a Bologna: avevo amici di famiglia o conoscenti non inseriti nel “sistema dell’arte” e che pure andavano a visitare i padiglioni o a vedere qualcosa degli eventi paralleli, scatenando discussioni furibonde (non scherzo). Forse si potrebbe partire proprio da lì, dalla partecipazione di un’audience non specializzata, per poi far crescere Artefiera quasi a ritroso? Penso anche al fatto che ci sono eventi paralleli di una certa risonanza (come il Premio Furla) e che i partner culturali quali la Cineteca, l’Università ecc. potrebbero esserci in maniera più consistente con una programmazione specifica. Cosa ne pensi?
Questo dovrebbe essere proprio il principale punto da cui ripartire. L’aspetto più interessante di Bologna è la partecipazione diffusa agli eventi di “cultura contemporanea” anche da parte dei non addetti ai lavori. Anche rispetto all’arte contemporanea. E mi sembra una cosa che non accade nel resto d’Italia. Non a caso l’istituzione “GAM” (chiamiamola così per comodità, visto che si tratta di una realtà complessa) sin dal suo inizio a Villa delle Rose fino ad arrivare al MAMbo, ma soprattutto direi durante gli Anni Settanta, è stata probabilmente l’istituzione più importante per l’arte contemporanea in Italia, pur non trovandosi in un grande centro. Ed è l’unica che è riuscita a lavorare con continuità a un buon livello per una cinquantina d’anni. Con alcune punte incredibili come le settimane della performance o l’opera di Fabio Mauri con Pasolini. Oppure momenti che dimostrano come si tratti di un museo vivo e sentito da una comunità (e non un luogo dove si succedono mostre senza un senso) come il rapporto tra Sebastian Matta e il sindaco Zangheri (con conseguente donazione di opere), il deposito del dipinto dei funerali di Togliatti da parte dell’ex Pci, o il memoriale della strage di Ustica. Oltre al fatto che rimane il luogo di conservazione di quello che da molti (me compreso) viene considerato il più grande artista italiano del secolo scorso, Giorgio Morandi, la cui importanza e attualità è stata ribadita anche dall’ultima Documenta.
È in questo clima che è nata Artefiera, anche in questo caso denotando un’apertura (a collezionisti e gallerie) e anticipando i tempi. Questo tipo di legame tra città e ricerca contemporanea credo sia dovuto proprio alle sue caratteristiche particolari. La città non è troppo grande ma non è nemmeno piccola; la gente ha l’abitudine di girarla facilmente a piedi e al tempo stesso l’impatto dell’Università (e quindi di persone con determinati interessi e un livello culturale buono) è diffuso su tutta la città. Le strade e gli spazi pubblici sono vissuti come in nessun altro luogo (a differenza ad esempio di Milano, città fatta di “interni” e di spazi privati) e questo dà vita anche a un forte senso comunitario delle persone che ne fanno parte e che si riflette sul tipo di arte che qui viene prodotto.

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Palazzo Pepoli a Bologna

In che senso?
Non è un caso che Bologna sia il principale luogo italiano per la street art e uno dei centri principali del dibattito politico nazionale. È come se lo spazio pubblico fosse continuamente performato, dagli anni in cui venivano erette finte facciate scenografiche del Vignola fino alla festa di Repubblica, passando per il movimento del ‘77 bolognese che aveva forti caratteri di artisticità. Gli stessi artisti di punta che gravitano maggiormente nel dibattito cittadino sono conosciuti anche dai non addetti ai lavori e vengono “riconosciuti” effettivamente come “portavoce” di una comunità. Anche perché, a differenza dell’artista medio italiano, non vivono in mondi astratti fatti di elucubrazioni e di distanza dalla vita, ma hanno la tendenza a cercare sempre uno spazio comune di incontro con la realtà che li circonda, muovendosi in una prospettiva allargata e postmediale, utilizzando ogni linguaggio a disposizione, creando ambienti e ambiti, e intervenendo nel dibattito politico e culturale.

Puoi fare qualche esempio concreto, giusto per capire di chi e cosa stiamo parlando e come questi artisti e luoghi hanno generato la relazione con la città?
Flavio Favelli ha iniziato progettando spazi interni al centro sociale Link dove la gente andava a ballare e divertirsi, ha costruito il bar del MAMbo che ha un grande successo in città, ma al tempo stesso si è mosso da solo per riuscire a ripensare la cappella dei funerali aconfessionali della Certosa di Bologna. Sissi, oltre a essere una presenza luminosa in grado di accendere il paesaggio urbano, realizza collaborazioni con ditte come Furla, arrivando negli armadi di molte donne come sui billboard dell’aeroporto. Cuoghi e Corsello hanno dato nuova vita a luoghi incredibili e abbandonati occupandoli per anni, sono tra i pochi artisti viventi ad aver creato immagini in grado di imporsi in un immaginario collettivo (Suf, CK8, Pea ecc.), e al tempo stesso si sono visti commissionare l’immagine per la campagna elettorale di Sergio Cofferati. Gli Zimmerfrei di recente hanno posizionato un bellissimo intervento luminoso all’ingresso della Cineteca, frutto di anni di lavoro intenso nello spazio pubblico. Ma guarda anche al caso di Bifo e capirai cosa voglio dire quando parlo di questa strana realtà; anche lui è un prodotto essenzialmente bolognese e non sarebbe potuto venir fuori in nessun altro luogo.

Torniamo ad Artefiera.
L’altro grande punto di forza che potrebbe avere e a cui nessuno mai pensa ha a che fare con l'”hardware”, diciamo. Ossia lo spazio fisico della fiera: un quartiere che è uno dei pochi capolavori di architettura e urbanistica in Italia. Vi hanno lavorato grandissimi architetti come Kenzo Tange o Leone Pancaldi (il progettista della vecchia GAM), o minori ma comunque con interventi interessanti, e in cui sono presenti gioielli mai valorizzati come il padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier. Nessuna fiera d’arte al mondo avviene in un luogo così interessante e non capisco come mai non riusciamo a sfruttare un unicum che non ha nessun altro in un momento in cui l’apporto dell’architettura è importantissimo per l’arte contemporanea (vedi esempi come il padiglione estivo della Serpentine a Londra). Anche perché, al di la delle discussioni su Artefiera, a mio parere le fiere in generale rimangono luoghi orribili da visitare e il posto peggiore dove fruire di un’opera d’arte. Bologna, se puntasse su questo, potrebbe davvero fare qualche cosa di importante.

Giovanna Furlanetto e Chiara Bertola Presente e futuro di Artefiera

Giovanna Furlanetto e Chiara Bertola

E come potrebbe funzionare l’interazione tra la fiera (struttura, azienda, business) con i possibili partner finanziari, commerciali e logistici – vedi Comune, Università, fondazioni private (Furla, Carisbo, Golinelli e altre) e aziende come Euromobil – e il resto della struttura industriale di Bologna e provincia? Al di là dei tour alle varie Ducati, Ferrari e via dicendo, come si potrebbe procedere per costruire un tessuto più solido e allo stesso tempo creativo? Teste diverse hanno finalità diverse, ovviamente. E forse il “bene comune” non arriva a costituire un messaggio sufficientemente forte?
Ecco, questo è uno dei tasti difficili. Come accennavo nella mia lettera per Art Texts Pics, quest’anno con Art City è stato compiuto un passo avanti notevole, tentando di portare un minimo di ordine e di dare un minimo di indirizzo al caos che regnava fino all’anno scorso. E alcuni risultati si vedono. Ma, come dicevo, non è semplice perché molte di queste realtà sono private o semiprivate e giustamente i soldi li spendono come vogliono: non può essere certo l’assessorato alla cultura a dirgli come operare, e men che meno il MAMbo. Il problema però è che alcune di queste realtà, quando vogliono, riescono a trovare disponibilità economiche eccezionali di questi tempi, anche comparate con altre realtà nazionali o internazionali, ma non sempre realizzano cose di alta qualità, anzi. Ho portato l’esempio del Museo della Città perché mi sembra il più eclatante. Invito tutti a cercare su internet i dati di quanto è stato speso per realizzarlo (non è una ricerca semplicissima) e a paragonarlo al budget del MAMbo. Pensa quello che si sarebbe potuto fare se le due realtà avessero unito le forze. O forse sono io che mi confondo e mi illudo di pensare che queste realtà operino nello stesso campo. Magari fanno semplicemente un lavoro diverso. Ci ho pensato anche alla mostra della Fondazione Golinelli: una mostra che coinvolgeva artisti di livello ottimo ma che sviluppava un tema (Benzine. Le energie della tua mente) di un livello da prima media e lo faceva in un modo talmente didascalico che avrebbe annoiato qualsiasi ragazzino. Figuriamoci gli addetti ai lavori.
Diciamo (per cercare di essere più chiari) che, se è possibile paragonare il MAMbo alla ricerca universitaria pura (seppur portata avanti con mezzi microscopici), la Fondazione Golinelli potrebbe essere un numero di Focus e la Fondazione Carisbo una scuola media con un budget gigantesco. Ecco, forse semplicemente facciamo lavori diversi e basterebbe non fare confusione tra queste istituzioni vedendole come operanti nello stesso campo. L’esempio positivo mi sembra invece la collaborazione con Furla (anche se poi resta da vedere il livello del premio di quest’anno, ma è un’altra faccenda). La realtà è che Bologna ha potenzialità di livello internazionale a cui anche tu hai accennato e che sono sfruttate solo in parte. Abbiamo delle aziende in grado di produrre un immaginario fortissimo capace di imporsi nel mondo (Ferrari, Maserati, Lamborghini ecc.). Sono aziende che si impongono nei sogni e nella psiche di chiunque, ma non riusciamo a fare in modo che siano per il territorio quello che, ad esempio, Hollywood è per Los Angeles.

E l’università?
Forse è la risorsa maggiore: potrebbe essere uno dei punti di forza in un periodo in cui l’arte contemporanea si mescola moltissimo con altre discipline teoriche come la filosofia, la letteratura ecc. La città universitaria bolognese rimane pur sempre un grande mito, anche a livello mondiale.
Un’ultima cosa: l’aspetto grafico. Purtroppo è molto triste dirlo, ma in questi anni è importantissimo, quasi più dei contenuti che vengono proposti. Rimane una constatazione davvero desolante. Però per realizzare una comunicazione grafica buona non ci vuole moltissimo. E l’aspetto grafico di Artefiera e Art City è davvero triste. Aiuterebbe un pubblico non solo di addetti ai lavori a sentire una maggiore compattezza nella proposta. In fin dei conti l’aura dell’arte è data anche da questi dettagli.
Alla base di tutto c’è comunque un problema di élite. A parte il Premio Furla che rimane un evento di livello alto ma sporadico (Il progetto formativo sempre di Fondazione Furla e Carisbo chiamato Accademie Eventuali mi sembra debba ancora trovare la sua strada: finora i risultati mi sono sembrati scarsi nonostante siano stati coinvolti artisti di primissimo piano), per il resto negli ultimi anni è accaduto pochissimo, mentre nel resto d’Italia si sono fatti passi da giganti. Non voglio dire che le grandi famiglie bolognesi dovrebbero aprire istituzioni come la Fondazione Prada o Trussardi. Però anche con un minore impegno a Roma sono riusciti a creare realtà come Nomas o la Fondazione Giuliani, ad esempio, che fanno cose molto interessanti e che sono state importantissime per la città. Anche a Reggio Emilia con la Fondazione Maramotti sono riusciti a creare un’istituzione che a Bologna ci sogniamo.

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Bologna nel 1977

Una “chiamata alle armi” in senso figurato (ma non troppo) per le élite culturali a darsi da fare cercando il bene comune può non essere in sintonia con la partecipazione allargata della città, mi verrebbe da osservare. Prada, Trussardi & Co. non hanno una missione benefica per sé – anche se il pubblico poi ne beneficia altamente – ma lo fanno per costruire quello che si definisce legacy in termini di marketing aziendale. Oppure lo fanno per cultural branding, vale a dire la promozione non tanto di prodotti ma di stili di vita: quello che fa la Apple in campo tecnologico, per intenderci. Se si applica lo stesso ragionamento alla cultura – bolognese, ma anche in altri ambiti cittadini – si finisce spesso per avere una scena molto sfaccettata ma non necessariamente organica. Tutti si mettono a fare qualcosa ma non in maniera che la somma delle parti sia più grande (o meglio gestita) delle singole iniziative. Si ritorna insomma al caso di super-sovvenzionamento di un Museo della Città quando il MAMbo non sa come produrre le mostre che dovrebbe fare. Vedi una soluzione su come gli elementi principali del mosaico bolognese potrebbero interagire in maniera intelligente? E se no, possiamo pensare che Artefiera in futuro possa agire da collante tra iniziativa privata e pubblica? Perché in fondo a me sembra che sia quello che manca, la volontà da parte di ciascuno di fare un passo indietro (figurativo) per farne due avanti insieme. Che poi è il principio sul quale si basano le collettive di artisti (e curatori, aggiungo).
Le due cose però non sono in contrasto. Proposte culturali generate da “élite economiche” o istituzioni pubbliche, dici tu, non necessariamente finiscono per collaborare con proposte più partecipate dal basso. Ed è vero. Ma inevitabilmente avrebbero almeno una funzione di “indirizzo” importantissima, che invece in città manca. Anzi, a volte la proposta “dall’alto” (permettimi questa orribile espressione) è addirittura fuorviante. Di sicuro i momenti come Artefiera servono proprio a questo, a fare da cerniera tra pubblico e privato. Il caso di Torino è esemplare, ma dimostra anche che occorrono anni di indirizzo culturale chiaro e continuativo (la continuità nelle cose è sempre l’aspetto più importante ed è sempre la componente che manca in Italia). Credo che l’assessorato alla cultura debba essere lo snodo di tutto. Come dicevo, con Art City quest’anno mi sembra che si sia iniziato a mettere ordine, ma ci vorrà tempo.
Forse potrebbero cercare di creare anche dei momenti extra-Artefiera (ossia in momenti non troppo legati a questioni commerciali) in cui cercare di far collaborare le realtà esistenti sotto un’unica regia di qualità e che sia in grado di coinvolgerne di nuove. Butto lì un’idea folle: una Biennale (quadriennale?) diffusa per la città in spazi pubblici e privati, low cost e incentrata solo sulla realtà italiana. Ma con una direzione artistica sola. Perché no? Magari accetterebbero tutti di delegare un poco le loro scelte pur aiutando con le loro energie economiche e non. In Italia mancano quasi completamente istituzioni e momenti dedicati a fare il punto su quello che succede nei nostri confini. E Bologna è un luogo geograficamente strategico e campanilisticamente abbastanza neutrale (vedendolo in una prospettiva Milano vs Roma).

Alfredo Cramerotti

www.artefiera.bolognafiere.it 

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Alfredo Cramerotti

Alfredo Cramerotti

Alfredo Cramerotti è un critico, curatore e artista di base nel Regno Unito. Il suo lavoro esplora la relazione tra realtà e rappresentazione attraverso una serie di media e collaborazioni tra le quali TV e radio, pubblicazioni, internet, festival mediatici,…

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