Quando la filosofia (e l’arte) finiscono in tivù. Intervista con Maurizio Ferraris

Zettel è un programma di mezz’ora che va in onda su RAI Scuola. E poi prosegue sul forum dedicato. Lo conduce Maurizio Ferraris, direttore del LabOnt di Torino, lo stesso con il quale collabora Artribune con la rubrica Dialoghi di Estetica. Abbiamo intervistato il professore su questa avventura catodica.

Ogni puntata dura mezz’ora e ha un tema da sviscerare filosoficamente. Succede tutti i martedì su RAI Scuola (canale 146 del digitale terrestre, 806 di Sky) e il programma si chiama Zettel. Da dove origina il nome?
Da un’opera di Wittgenstein, letteralmente vuol dire “foglietti”, noi pensiamo a dei post-it, brevi frammenti filosofici, che escono in tv ma sono pensati soprattutto per il web, per una fruizione anche frammentata, come solitamente è la fruizione sul web. Di qui la necessità di avere dei frammenti autoconclusi, dotati di un senso autonomo, un po’ come degli aforismi.

Parliamo del format. Maurizio Ferraris in studio, da New York Achille Varzi, gli interventi al tuo fianco di Mario De Caro, e poi gli ospiti. Come si tiene viva l’attenzione del telespettatore per mezz’ora? L’impostazione è la sommatoria dell’esperienza televisiva degli operatori RAI e della vostra in qualità di docenti?
Intanto non sono convinto che sia necessario tenere desta l’attenzione per mezz’ora, basta l’attenzione per il frammento. Poi ovviamente ci può essere una fruizione continua, ed è quello che avviene quando (come mi dicono succede in molte scuole) la puntata è trasmessa in classe.  E lì ovviamente il fatto che ci siano molti ospiti, brani filmati, brani musicali la rende molto vivace rispetto a una lezione standard. Poi ovviamente se si tratta di fare la concorrenza a Sanremo la partita è persa, ma non era la partita che volevamo giocare.
L’impostazione, come dici tu, trae grande vantaggio dall’esperienza RAI di un regista come Piccio Raffanini, un uomo molto colto e visivamente molto raffinato, così come dalle idee di un profondo conoscitore e teorico del web (nonché filosofo) come Gino Roncaglia, dalla produttrice Giosi Mancini e dalla direttrice di RAI Educational Silvia Calandrelli, che è filosofa di formazione. Dall’altra, ci siamo noi (Mario De Caro, Achille Varzi, gli ospiti e le ospiti delle singole puntate…), che ci comportiamo come a lezione, cercando di essere chiari ma non noiosi. Facciamo in modo di non pensare di essere “in tv”, magari in un talk show, che è uno degli ambienti meno adatti per la filosofia perché, a dispetto del nome, non dà spazio all’argomentazione. Siamo in aula, stiamo rispondendo alle domande di uno studente.


Il 28 maggio avete parlato di arte, anzi di opere d’arte. E sono emerse almeno tre diverse posizioni. Capita sempre così o su qualcosa la filosofia mette tutti – o quasi – d’accordo?
La filosofia non è fatta per generare accordi, ma per mettere in luce prospettive diverse. Come diceva Wittgenstein, “c’è più di un architetto in questa città”, intendendosi per “città”, nel nostro caso, la polis della filosofia. Ed è questa l’impressione che vogliamo trasmettere.

Facendo l’avvocato del diavolo: con questa impostazione tele-spettacolare (la grande sala, la cartolina dalla Columbia University, le slide che arrivano dal Mac in bella vista, la presenza scenica del professor Ferraris…) non si riduce la filosofia a bene di consumo come un X Factor qualunque? Nel senso: le questioni restano irrisolte, si naviga a basso pescaggio…
La sala (che è poi un’area dismessa della Città della Scienza di Napoli, trasfigurata dalle luci) è la concessione più spettacolare, vuole un po’ richiamare la caverna della Repubblica di Platone. Il che, se vogliamo, non è esattamente un concetto da X Factor. Varzi ci manda le cartoline perché in effetti insegna alla Columbia, non può farci niente. Il Mac è in bella vista perché non lo si può nascondere, e comunque abbiamo coperto la mela con un adesivo di Zettel (prima che si realizzasse l’adesivo, con una montagnola di libri). La mia “presenza scenica” poi, è esattamente quella che adopero a lezione, né più né meno, cioè è la faccia che mi ritrovo. Ciò detto, ovviamente le questioni restano irrisolte, perché le questioni filosofiche non si risolvono, semplicemente si presentano, in una trasmissione televisiva. Pretendere di risolverle in quella sede, questo, davvero, sarebbe navigare a basso pescaggio.

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Zettel – Mario De Caro e Maurizio Ferraris

Andiamo dall’altro lato dell’obiezione: è coinvolgente la filosofia presentata in questo modo? Come sono le risposte da parte del pubblico? Male non devono essere, visto che siete alla seconda serie…
In effetti il successo è stato molto superiore a quello che ci immaginavamo. Molto conta anche un’iniziativa che vuole completare la puntata con un approfondimento e una discussione che, come dicevo un momento fa, nella puntata non si può dare. Dopo ogni trasmissione un giovane filosofo, generalmente un dottorando, modera un forum sulla pagina Facebook di Zettel da cui partono dibattiti lunghi, pazienti, approfonditi, che coinvolgono moltissime persone (la pagina ha 5.000 iscritti). Non mi sembra che X Factor abbia degli sviluppi del genere, ma ovviamente potrei sbagliarmi.

Domanda che riassume e rilancia le due obiezioni: cosa possono dare reciprocamente l’una all’altra televisione e filosofia?
Kant diceva: i concetti senza intuizione sono ciechi, le intuizioni senza concetto sono vuote. Può capitare di sentire una conferenza astrattissima e oscura, ed è il primo caso. Può capitare di vedere uno spettacolo magari formalmente elegantissimo, ma vacuo. Cercare di fare filosofia in tv vorrebbe provare a coniugare il visivo e il concettuale. La televisione può dare visibilità agli argomenti filosofici, e nel web può anche dare una specie di perennità, visto che stanno lì e resistono, non all’infinito, immagino, ma per un bel po’, magari anche dopo la nostra morte. La filosofia può dare alla televisione dei contenuti non banali, ma è una storia vecchia, pensa a quanti filosofi stanno all’origine della RAI, per esempio Vattimo ed Eco, che hanno esordito proprio come funzionari per i programmi culturali RAI.

Una delle famose Brillo Box di Warhol Quando la filosofia (e l’arte) finiscono in tivù. Intervista con Maurizio Ferraris

Una delle famose Brillo Box di Warhol

Continuiamo con le obiezioni, questa volta dal lato critica-d’-arte. Perché questa ossessione per le Brillo Box? Nella puntata dedicata all’arte ne parlate praticamente tutti e – per fare un esempio “vicino” al LabOnt – Danto ha scritto pagine su pagine su quel lavoro. Ma parliamo di un’opera che risale a qualcosa come cinquant’anni fa: forse non è così calzante quando si parla di contemporaneità. Sarebbe come, mutatis mutandis, citare sempre e soltanto Le parole e le cose di Foucault in un corso sugli ultimi sviluppi della filosofia; per non dire dell’ambito scientifico, dove l’obsolescenza delle tesi viaggia ancor più rapidamente. È forse il vizio della filosofia di confondere se stessa con la tuttologia, e quindi sentirsi autorizzata a discutere le fondamenta di materie che in realtà non conosce (gli esempi clamorosi non mancano, soprattutto in “filosofia della scienza”)?
Abbiamo preso Brillo perché è un argomento universalmente noto, così come l’orinatoio di Duchamp, la Gioconda, e i baffi alla Gioconda. Non credo che il gioco concettuale che stava alla base di Brillo (far vedere quanto siano belli gli oggetti di tutti i giorni) o dell’orinatoio di Duchamp (suggerire che qualunque cosa può essere un’opera d’arte, e scandalizzare un po’ i borghesi di novant’anni fa) siano giochi molto diversi dai teschi di Hirst, dai bambini impiccati di Cattelan, dalle ossa spolpate della Abramovic. Inoltre, quando si parla di arte, in filosofia, si fa riferimento non solo all’arte contemporanea, ma a tutta l’arte (e ovviamente non solo all’arte visiva).
Infine, c’è una bella differenza tra il parlare di scienza, che è una materia specialistica, intrinsecamente esoterica, e di arte che, se non sbaglio, è un’attività umana che si rivolge a tutti, e che verrebbe meno alla sua ragion d’essere se sostenesse che certe cose sono accessibili solo agli esperti… Sarebbe come un cuoco che cerca di convincere il cliente che il piatto in realtà è buonissimo, e che se gli pare cattivo è solo perché non ha studiato abbastanza. Un po’ ridicolo e fastidioso, non trovi? Il bello è che la follia umana ha prodotto ristoranti di questo genere, ma questo è un altro discorso.

Torniamo a questioni più pratiche: ci sono già conferme per la terza serie?
C’è una forte volontà di RAI Educational di proseguire nell’esperienza, ovviamente si tratta di verificare la sostenibilità economica in un periodo di grandi tagli alla cultura. Vorremmo sviluppare il programma con contributi internazionali, abbiamo già apporti di Putnam, di Searle, di Dennett, e vogliamo arricchire anche in questa direzione, oltre che in quella degli speciali (ne abbiamo dedicato uno all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che va in onda all’1.30 di notte del 26 dicembre su RAI 3, un altro lo dedicheremo al realismo, ci stiamo lavorando in questi giorni).

wittgenstein Quando la filosofia (e l’arte) finiscono in tivù. Intervista con Maurizio Ferraris

Ludwig Wittgenstein

Parliamo infine un momento del LabOnt. Vi abbiamo visti ad Artissima insieme al Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli. L’ultimo numero della Rivista di Estetica è dedicata all’esperienza del vino. Due vostri giovani ricercatori hanno dato vita alla rubrica Dialoghi di Estetica su Artribune. Cultura, buon vivere, arte, filosofia: sei pessimista od ottimista su questa costellazione creativa che sta lentamente rispuntando in Italia? Insomma, c’è un futuro – se non radioso, almeno civile – per il nostro Paese? E quale contributo possono e devono dare i dipartimenti universitari?
Tutto quello che faccio (e che fanno gli amici di Zettel, o del LabOnt) muove appunto dall’idea che un futuro di questo genere ci sia. Ma perché ci sia non bisogna giocare al ribasso, come è avvenuto negli Anni Ottanta e Novanta, in cui la cultura era subordinata ai media, come tipicamente dimostra l’istituzione di corsi di laurea in scienze della comunicazione. No, la cultura deve presentarsi come tale, non impoverendosi attraverso una standardizzazione espressiva, ma arricchendosi con nuove risorse, sui media. Soprattutto nel momento in cui i media sono più duttili, come nel caso del web.
A questo punto non ci sarà più un abisso tra il dentro e il fuori della cultura, tra la ricerca e la vita civile, tra lo specialismo filosofico (e culturale in genere) e le esigenze culturali della società. E credo che questo costituisca di per sé, e anche in tempi di crisi, una prospettiva di futuro a cui non si può rinunciare.

Marco Enrico Giacomelli

www.filosofia.rai.it/programmi/zettel/

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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